Il potere che non logorò Andreotti
Non ho certo la pretesa di ricordare ufficialmente la figura di Giulio Andreotti, presidente del Consiglio per 7 volte, ministro in tutti i più importanti dicasteri, senatore a vita.
Sembrerà strano, ma in 41 anni di carriera nell’amministrazione dello stato e in quella comunitaria non ho avuto molte occasioni d’incontrarlo, ma ho apprezzato e applicato le direttive da lui impartite alla guida di vari dicasteri. Storica la sua battuta: «Il potere logora chi non ce l’ha».
Nei primi giorni del 1973 ero giovane vice capo di gabinetto alla prefettura di Arezzo e, leggendo le circolari ministeriali, una in particolare attrasse la mia attenzione. Proveniva dalla presidenza del Consiglio, era firmata dall’allora premier Giulio Andreotti e aveva un oggetto molto interessante: «i principi del buon governo». L’organizzazione di ministeri e amministrazione periferica allora era meno complicata, c’erano poche poltrone di governo e sottogoverno, i funzionari erano pochi ma molto capaci, le circolari che provenivano dal “centro” erano esemplari per forma e contenuto.
Lessi quel documento da cima a fondo con estrema attenzione e ricordo di aver segnalato al prefetto i principi fondamentali ivi contenuti: semplicità delle procedure, trasparenza delle attività, cortesia nei confronti degli utenti, rispetto assoluto della legittimità e della correttezza amministrativa, scelta di procedimenti che comportassero minor aggravio della spesa pubblica, miglior coordinamento dell’attività delle pubbliche amministrazioni. La circolare si concludeva con l’augurio di un proficuo e sereno lavoro a firma del presidente del Consiglio. Mi piace immaginare (e credo che questo mio assunto corrisponda a verità) che lo stesso Andreotti abbia voluto concludere il documento con quella formula non proprio tipica dello stile burocratico, considerata la sua nota sensibilità verso i rappresentanti delle pubbliche amministrazioni.
Conobbi personalmente Andreotti soltanto nel 1984, quando mi trovavo a Bruxelles come funzionario della Commissione UE. Ricevetti un invito a partecipare a un incontro al Berlaymont fra l’allora ministro degli Esteri e i funzionari italiani. Un collega, Antonio Quatraro, funzionario comunitario e segretario della DC a Bruxelles, si incaricò di presentare l’illustre ospite e, forse dimentico della lingua madre per la lunga permanenza in Belgio, esordì dicendo: “presentare Giulio Andreotti è certo prematuro…” (naturalmente intendeva dire superfluo). Il ministro sorrise imperturbabile alla gaffe (si notò appena un’increspatura divertita del labbro), ma naturalmente non disse nulla per non mettere in imbarazzo il maldestro presentatore.
Quando poi rientrai in Italia, l’anno successivo, inviai allo stesso ministro una lettera nella quale segnalavo alcune criticità: la scarsa presenza dei funzionari italiani impegnati negli uffici comunitari; l’inesistente scambio di esperienze tra i funzionari nazionali e quelli europei, che invece in altri Stati (Francia e Inghilterra) era molto frequente.
Con mia grande sorpresa Andreotti mi rispose, riconoscendo che alcuni dei rilievi avanzati erano condivisibili, tanto che il Ministero degli Affari Esteri aveva già iniziato a porre rimedio a qualcuna delle carenze sottolineate. E concludeva con un cordiale saluto.
Non ho più incontrato il senatore, che pure, anche dopo il 1985, continuò a ricoprire incarichi ministeriali e fu nuovamente presidente del Consiglio nel 1992. Resta in me il ricordo di una persona intelligente e lungimirante, che seppe poi affrontare con serenità e coraggio, nonostante la gravità delle imputazioni (su cui ormai sarà la storia a dare il verdetto definitivo), le vicende processuali in cui fu coinvolto; nel corso delle quali, peraltro, conservò sempre intatto quel rispetto delle istituzioni che era caratteristica peculiare degli uomini politici di quel periodo. E non nascondo che, di questi tempi, ne sentiamo un po’ la mancanza.