Georgofili, io testimone di una ferita
Ci sono ferite che il tempo non cancella, ricordi che restano indelebili nella vita di una persona. Quella tragica notte tra il 26 e il 27 maggio 1993, quando l’esplosione di un’autobomba causò la morte di cinque persone, vittime innocenti del disegno criminoso della mafia, ero viceprefetto di Firenze e, dopo una giornata faticosa, ero tornato a casa tardi.
Le solite beghe burocratiche, i problemi piccoli e grandi da risolvere insieme ai colleghi(e), le tante riunioni da presiedere, al termine della giornata ero proprio stanco. Una cena frugale, un’oretta di televisione per conciliare il sonno, due chiacchiere con la moglie e poi a letto, verso mezzanotte. Ma dopo un’ora un boato squarciò l’aria e mi svegliò di soprassalto.
Senza neppure telefonare in ufficio per sapere cos’era successo mi avviai in prefettura, dove trovai il capo di gabinetto, Carmelo Aronica. Si parlava inizialmente dello scoppio di una bombola di gas. Arrivammo al piazzale degli Uffizi mentre il prefetto Mario Iovine comunicava, via cellulare (uno dei primi), al ministero dell’interno le prime sommarie notizie: sembrava che non ci fossero morti, ma solo gravissimi danni materiali. Ma lo scenario mutò rapidamente nel corso della nottata: si scoprirono le vittime, Angela e Fabrizio Nencioni con le piccole figlie Nadia e Caterina e il giovane studente di architettura Dario Capolicchio.
Fece il giro del mondo la foto del vigile del fuoco che portò via dalle macerie il corpicino ormai inanimato di Caterina Nencioni, cinquanta giorni di vita. Le prime comunicazioni alla stampa, fornite da magistrati, prefetto e questore, furono improntate alla prudenza; presto però le verifiche di vigili del fuoco e forze dell’ordine mostrarono un’altra, più tragica lettura dei fatti. Si era trattato di un’autobomba. Tornammo in ufficio: il prefetto Mario Iovine, esperto investigatore che nella sua carriera era stato testimone di tanti delitti di terrorismo e mafia (era prefetto a Palermo nel 1992, l’anno delle stragi di Capaci e via d’Amelio), ci confermò il sospetto di una matrice mafiosa.
Nei giorni immediatamente successivi all’attentato si susseguirono le visite eccellenti: il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, il presidente del Senato, Giovanni Spadolini, il presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi. In questa girandola di visite mi fu affidato il compito di accompagnare il ministro dell’interno, senatore Nicola Mancino, al quale illustrai i fatti, evidenziando le necessità della città.
Passati questi momenti ci dedicammo alla ricostruzione; la prefettura fu incaricata di gestire gli interventi finanziari a favore di chi aveva subito danni ai beni mobili e immobili e alle attività commerciali. Fu istituita un’apposita commissione, da me presieduta, composta da tecnici dello stato, del comune, della regione. La commissione lavorò a pieno ritmo, tanto che in soli quattro mesi valutò e liquidò la quasi totalità dei danni, quelli meno rilevanti. Per edifici commerciali gravemente lesionati e abitazioni distrutte occorrevano ovviamente perizie più complesse. Ma lo Stato si fidò dei danneggiati: liquidò le indennità sulla base di preventivi e fatture che gli stessi cittadini avevano presentato, per la valutazione di congruità, alla commissione. Le richieste furono oneste e le verifiche scrupolose, tanto che restituimmo 17 dei 20 miliardi ricevuti come «tesoretto» per il risarcimento.
Al termine dell’attività fummo ringraziati ufficialmente da varie autorità e il Capo dello stato ci conferì un’onorificenza al merito della repubblica. Il riconoscimento più gradito lo ricevetti però da una signora piccola, minuta, vivace e intraprendente, che è stata l’anima del comitato degli operatori economici danneggiati dell’«area lambertesca». La signora Marisa Bacci, quando venne a conoscenza della mia nomina a prefetto quattro mesi dopo, si congratulò e mi ringraziò perché aveva avuto vicina, quotidianamente, la mia presenza – personale e quale rappresentante dello stato – e ciò aveva dato a tutti maggiore fiducia nelle istituzioni e la certezza che non sarebbero mai stati abbandonati. Sono parole come queste che ripagano, più di mille promozioni, dei tanti sacrifici e dell’impegno al servizio dello Stato e dei cittadini.
Esecutori e boss di Cosa Nostra sono stati processati e condannati, grazie all’eccellente lavoro dei magistrati, in primis Piero Vigna e Gabriele Chelazzi. Ma restano altre responsabilità da accertare, quelle dei presunti mandanti. «Non ci fermiamo mai, nella speranza di andare a rintracciare e identificare se ci sono, come è possibile che ci siano, ancora altre responsabilità», ha affermato in questi giorni il procuratore della repubblica di Firenze, Giuseppe Quattrocchi. A vent’anni da quel tragico fatto confido anch’io che il lavoro indefesso e professionale degli investigatori arrivi finalmente a scoprire i mandanti di questa strage: lo dobbiamo ai parenti delle vittime e alla memoria di due eccellenti e valorosi magistrati, di cui mi onoro di essere stato amico, che si sono strenuamente impegnati per far emergere la verità.