Una «fiorita» per ricordare Savonarola
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A Firenze sono passati moltissimi personaggi illustri, che hanno segnato la storia dell’umanità: uno di questi è senz’altro fra’ Girolamo Savonarola. A pochi metri dalla Fontana del Nettuno, sul lastrico di piazza della Signoria, si trova una lapide circolare in granito rosso con caratteri bronzei, che segna e ricorda il punto dove il frate fu impiccato ed arso il 23 maggio 1498 insieme ai suoi confratelli domenicani fra’ Domenico Buonvicini e fra’ Silvestro Maruffi.
Ieri in quel luogo la tradizionale cerimonia della «Fiorita» che si rinnova ogni anno il 23 maggio, presenti il sindaco Matteo Renzi e il presidente del consiglio comunale Eugenio Giani. Con loro una folta rappresentanza del corteo della Repubblica fiorentina e il coro di San Marco che si è esibito in canti gregoriani. Un’ala di pubblico, anche straniero, ha seguito tutto l’evento, facendo da cornice anche al corteo, che da Piazza della Signoria si è poi spostato fino al Ponte Vecchio, dove la manifestazione si è conclusa con il lancio dei petali di rosa in Arno.
Fra’ Girolamo fu l’ispiratore di un rinnovamento religioso e sociale antimediceo, e per questo venne accusato di intemperanza religiosa e indisciplina ecclesiastica, processato e giustiziato. Era l’alba del 23 maggio, giorno di vigilia dell’Ascensione. Savonarola ed i suoi due confratelli, dopo aver ascoltato la santa messa nella Cappella dei Priori nel Palazzo della Signoria, furono condotti sull’arengario del palazzo stesso dove subirono la degradazione da parte del Tribunale del Vescovo.
Dopo la degradazione, i tre frati vennero avviati verso il patibolo, innalzato nei pressi della Fontana del Nettuno e collegato all’arengario del palazzo da una passerella sopraelevata da terra quasi due metri. La forca, alta cinque metri, si ergeva su una catasta di legna e scope cosparse d’olio, pece e polvere da sparo per bombarde, perché «meglio ardesse». Fra le urla della folla fu appiccato il fuoco a quella catasta che in breve fiammeggiò violentemente, bruciando i corpi oramai senza vita dei giustiziati. Le ceneri dei tre frati, del palco e d’ogni cosa bruciata con loro, furono portate via con sollecitudine a mezzo di carrette, e gettate in Arno dal Ponte Vecchio, per evitare che venissero raccolte e fatte oggetto di reliquie da parte dei molti seguaci del Savonarola mischiati fra la folla.
La mattina dopo, il luogo dove si era consumata l’esecuzione, apparve tutto coperto di fiori, foglie di palma e petali di rose. Nottetempo, mani pietose avevano voluto rendere omaggio alla memoria dell’ascetico predicatore, iniziando così la tradizione della Fiorita che tuttora perdura.
Il punto esatto nel quale avvenne il martirio, nel Quattrocento, era indicato da un tassello di marmo, che si toglieva per collocare il travicello quale perno al «Saracino» quando si correva quel tipo di giostra. Al posto dell’antico tassello di questo gioco equestre, attualmente c’è la lapide circolare sopra descritta, che ricorda il punto preciso dove fu impiccato e arso frate Hieronimo; questa l’iscrizione in caratteri bronzei: «Dopo quattro secoli fu collocata questa memoria».
Da allora, su questa lapide il 23 maggio di ogni anno si svolge, per rendere omaggio alla memoria dell’ascetico predicatore, la breve ma significativa cerimonia della Fiorita con l’apposizione di fiori e petali di rose, così come avvenne nella notte del martirio.
Dopo cinque anni dal triste evento, il boia che aveva impiccato i tre frati, chiamato maestro Francesco subì, a furor di popolo, la lapidazione. Le cose andarono così: era il 29 maggio 1503 quando al patibolo fuori Porta della Giustizia, veniva messa in atto l’esecuzione di un giovane banderaio ventenne, reo di aver ucciso un altro banderaio per «invidia». La pena di morte comminata, doveva avvenire per taglio della testa da parte del boia, che era quello stesso che aveva giustiziato «i tre servi di Dio, Savonarola e i suoi due confratelli». Appoggiato il capo sul ceppo, l’infelice banderaio attese fatalmente che la possente scure di maestro Francesco mettesse fine alle sue tristezze; ma non fu subito così perché il boia sbagliò per più volte il colpo mortale, aggiungendo maggior sofferenza al giustiziato e afflizione ai presenti per quel tormento inaudito, tanto «che si levò un tumulto fra il popolo» ed al grido: «A’ sassi, a sassi» per spontanea lapidazione «lo ammazzorono e poi e fanciulli lo stracinorono insino a Santa Croce». Tutti pensarono che il fattaccio «era intervenuto perché egli impiccò e arse quei tre frati».