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Semipresidenzialismo, si riapre il dibattito

Bisogna essere onesti: la nostra classe politica non è mai stata troppo coraggiosa. Con la prima Repubblica ha cercato di vivacchiare per decenni e c’è riuscita fino al 1993, quando la rivoluzione di Tangentopoli unita al referendum per l’introduzione del Mattarellum (collegi uninominali per il 75 per cento del Parlamento al posto delle vecchie liste proporzionali con preferenza) e alla legge Ciaffi per l’elezione diretta del sindaco e dei presidenti di Provincia hanno cambiato completamente lo scacchiere politico.

Nasce così, senza modifiche costituzionali, la cosiddetta Seconda Repubblica. Per la riforma del titolo V della Costituzione si dovrà aspettare il “federalismo” del 2001, che ben presto si trasformerà in un boomerang, soprattutto per la nascita dell’ibrido giuridico delle materie a legislazione concorrente per le quali hanno competenza sia Stato che Regioni e le cui controversie hanno intasato per anni la Corte costituzionale.

Il cambio di legge elettorale non fu scelta politica, ma “obbligo” di fronte al voto referendario. Anzi, il Parlamento di allora non riuscì a modificare di una virgola il pasticciato testo del Mattarellum (fatto, come prevede la legge, di abrogazioni di vecchi articoli senza poter scrivere nient’altro) che uscì dalle urne. Eppure, già allora c’era chi aveva lanciato una proposta tutt’altro che peregrina: la riscrittura della Costituzione per far passare il Paese da un sistema parlamentare a uno presidenziale, o meglio semi-presidenziale, qualcosa di simile a quello utilizzato in Francia.

In verità pochi partiti provarono a sostenere la riforma (liberali e qualche parlamentare Dc), il dibattito – come sempre accade in questi casi – fu più acceso sui giornali, dove il più grande sostenitore della riforma era quel Giovanni Sartori, politologo, che aveva da poco lasciato l’insegnamento all’Università di Firenze.

Il semi-presidenzialismo, unito obbligatoriamente a collegi uninominali (altrimenti il rischio è quello di ripetere l’errore-orrore tedesco di Weimer), permette una leadership autorevole del Paese con l’elezione diretta del presidente della Repubblica, ha un “presidente-del-consiglio-operaio” scelto da quest’ultimo, votato dal Parlamento e che ovviamente deve avere un voto di fiducia parlamentare. Il presidente incarna il ruolo politico di fronte al Paese e – cosa assai importante – di fronte all’Unione europea e al resto del mondo, mentre il premier e la maggioranza a testa bassa sono chiamati a occuparsi di trasformare in decreti e leggi gli input politici.

Il sistema – scartato nel ’93 – potrebbe avere molti vantaggi anche nell’Italia di oggi, ma solo ad alcune condizioni. Che non è detto siano possibili. I partiti dovranno avere l’umiltà dallo spogliarsi dal ruolo forte di indicare i Parlamentari (collegi usati come negli anni Novanta per paracadutare esponenti altrove – ci ricordiamo di Antonio Di Pietro in Mugello o di Vittorio Cecchi Gori in Sicilia? – sono peggio delle liste bloccate) e gli elettori dovranno imparare ad avere un contatto diretto con i candidati e l’eletto del collegio, senza più nascondersi dietro al voto ideologico (ancora molto presente soprattutto in certe aree del Paese). Infine, il dibattito politico per affrontare una tale riforma c’è da aspettarsi che sia “piuttosto alto” e non limitato al “mica vorranno mettere Berlusconi presidente?” contro “Ora vogliamo Berlusconi presidente!”.

Sembra che in queste settimane il centrodestra stia lavorando per trovare convergenze sul semipresidenzialismo e anche in casa Pd ci sono state molte aperture. Basteranno? La storia dice di no. Che senza una sferzata dall’esterno, difficilmente ci potrà essere un accordo che cambi così radicalmente il nostro sistema istituzionale. Per farlo, oltretutto, serviranno almeno due anni (anche con la scorciatoia inventata nelle ultime ore del Comitato dei 40). Certo che con il governo Letta – in maniera emergenziale – reattivo nell’affrontare senza intralci il nodo economia-sviluppo e i partiti impegnati a disegnare una vera Seconda Repubblica, l’Italia potrebbe anche tornare a essere competitiva e con quale ruolo nello scenario europeo e non solo.

Se fra un paio d’anni a tenere testa alla Germania ci sarà un presidente della Repubblica eletto direttamente dai cittadini con solida maggioranza parlamentare e un premier impegnato “sul pezzo” potrebbe anche essere più facile contrastare quegli obblighi che da almeno due anni ci hanno portato a una profonda crisi economica e sociale.

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