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L’Egitto prende a Morsi i Fratelli musulmani

In genere quando arrivano i generali al posto dei politici si grida al golpe. Tanto più se il presidente deposto è il primo democraticamente eletto degli ultimi decenni votato dal 51 per cento della popolazione neanche un anno fa.

Eppure, la cosa non sta succedendo in Egitto dove il presidente Mohammed Morsi questa sera è stato deposto da esercito e polizia. I militari, dopo i morti e i feriti delle scorse settimane, gli avevano dato 48 ore per far cessare le proteste e intavolare un governo di coalizione con le principali opposizioni. La cosa non è successa. E lo hanno messo agli “arresti domiciliari”.

Perché siamo arrivato a questo dopo la lunga dittatura di Hosni Mubarak? Innanzitutto, Morsi, secondo i suoi oppositori ma anche secondo molti suoi iniziali supporter che hanno manifestato in questi giorni, non solo non ha neanche iniziato a risolvere i problemi economici e sociali del Paese, ma li ha aggravati seguendo ciecamente le indicazioni del partito che lo ha scelto come candidato premier, i Fratelli musulmani.

Il loro principale leader, Khariat El-Shater, che doveva essere il candidato premier se non fosse stato per una sentenza di condanna che pendeva sulla sua testa, è stato in realtà il principale responsabile delle scelte governative e oggi sa bene che – dopo la deposizione – democraticamente potrebbe essere molto difficile riuscire a vincere non solo le prossime elezioni, ma anche quelle del prossimo decennio.

Per questo alcuni esponenti filo-governativi come Tarek El Zumar, subito prima dell’ultimatum delle forze armante (scaduto alle 16,30 di oggi), hanno provato a lanciare l’idea di referendum sulla proposta di elezioni anticipate, salvo poi essere smentiti poche ore dopo.

In questo caos, tutte le opposizioni – pur non senza contraddizione – hanno visto di buon occhio l’intervento militare. Anche le diplomazie internazionali non paiono scandalizzate e le tv americane laicamente sottolineano che il presidente “has been removed from office”, è stato rimosso dall’incarico, oppure “is out”, è fuori.

Un politico egiziano molto più stimato in Occidente che nel suo Paese, l’ex diplomatico Onu El Baradei che guida il partito Tamarod, dopo aver messo in Rete le bugie di Morsi dei primi cento giorni (10 promesse mantenute su 64), ha iniziato il countdown per il ritorno allo spirito della prima piazza Tahrir, quella che fece deporre Mubarak. Il primo passo doveva essere proprio l’intervento militare per traghettare il Paese a nuove elezioni.

Favorevoli alla svolta anche il Papa della chiesa copta Tawarods II che aveva pesantemente criticato Morsi e i giudici costituzionali che infatti guideranno la “road map” verso nuove elezioni. Il presidente ad interim non sarà il generale che ha guidato la deposizione di Morsi, Abdel Fatah al Sisi, già ministro della Difesa di Morsi che aveva accusato l’eccessiva vicinanza del premier ai Fratelli musualmani, bensì il presidente della Corte Costituzionale egiziana, il giudice Adli Mansour.

Dunque, tutto risolto? Non proprio. Perché il timore adesso è che la deposizione di Morsi sia solo l’inizio di una lunga battaglia che i Fratelli musulmani potrebbero voler combattere. Sono loro, del resto, che valutano la guerra santa “un’opzione”, che in Egitto sono radicati da decenni e che guidavano “legittimamente” il Paese. Ora potrebbero far pagare caro la deposizione del loro leader. In Egitto, ma non solo.

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