«Il babbo era un ladro»: il romanzo-reportage di Paolo Ciampi
FIRENZE – «Il babbo era un ladro» (Romano editore) è l’ultimo libro del giornalista e scrittore fiorentino Paolo Ciampi, un libro che sfugge a ogni definizione di genere perché molte cose insieme, romanzo rigorosamente di vita vissuta e autentica e opera di ricostruzione storica, reportage giornalistico, biografia, racconto di affetti. Ancora una volta Ciampi recupera dalle pieghe delle vicende storiche e dei resoconti delle cronache un personaggio dimenticato e lo mette al centro di un affresco che, nel ricostruire la parabola di un’esistenza complessa e coinvolgente, racconta una città e un’epoca.
Il personaggio è Cicoria, al secolo Ubaldo Cecchi, colui che nella Firenze del dopoguerra fu additato come il pericolo pubblico numero uno, in realtà il capo astuto e inafferrabile di una “banda del buco” (assai più efficace, nei suoi colpi, di quella del film di Monicelli, i soliti ignoti). Oggi non entrerebbe nemmeno nella graduatoria dei criminali più pericolosi, anche perché non ha mai sparso una goccia di sangue, allora fu il protagonista di una gigantesca caccia all’uomo, un guardie e ladri che finì con la sua cattura (anzi con più di una cattura perché ci fu anche qualche evasione) e poi con il suo “seppellimento” in carcere – alle Murate, a Porto Azzurro e in altri temibili carceri.
In realtà più che una storia di malavita, è la storia degli affetti spezzati intorno a un uomo che in carcere provò anche a trovare un senso attraverso la scrittura e l’arte (dipingeva, nemmeno male, componeva e rappresentava commediole). Il tutto raccontato attraverso la storia della figlia, persona che è sempre vissuta nell’assenza di un padre che non riuscirà più a incontrare… E in un racconto che non manca di colpi di scena, è anche la storia di tre fratelli che si ritrovano dopo 60 anni di silenzi ed equivoci.
Il 22 luglio, ore 21, la prima vera presentazione, assieme a Tito Barbini, non a caso alle Murate. Questa è la citazione sul risvolto di copertina
“Se non lo aggiunge lei, magari lo dirò io: certo che è anche altro, chi scrive poesie.
Lo so, perché la poesia è sempre stata piena di delinquenti. Francois Villon condannato all’impiccagione e graziato. Christopher Marlowe, spia dal coltello facile. Arthur Rimbaud mercante di schiavi. Potrei metterne in fila diversi altri. Attaccabrighe, ladri, tossici e ruffiani. Bari e falsari. Sicari e collaborazionisti della peggiore specie.
Meno male che il tempo in genere è galantuomo. Se non perdona, dimentica. Dimentica e va avanti. Si porta dietro solo ciò che serve. Cancella sentenze e magari si intasca la bellezza di un verso.
Certo che è anche altro, chi scrive poesie. Però a me non piace nemmeno questa parola: delinquente. Anche per il peggiore dei peggiori. Figurarsi per chi scrive poesie.
Un altro pensiero batte le ali come una farfalla. Provo a inseguirlo con il retino dell’attenzione. Il silenzio. Non è mio e di Bruna, il silenzio. Non è di questa città. C’è un altro silenzio, che ora si è fatto largo tra noi.
Il silenzio di una persona che non c’è più. Di un padre che si è portato via persino i ricordi della figlia.
Questo silenzio. Il silenzio di uomo che era anche altro. Qualunque cosa abbia combinato.
E qualunque cosa abbia combinato, comincia a riguardarmi, questo silenzio“.