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Siria, venti di guerra

Nessuno credeva veramente che dopo due anni di stermini, l’Occidente e gli Stati Uniti per primi cambiassero registro con la Siria. Eppure, è successo. E questo potrebbe presto portare a una reazione armata contro il regime di Al Assad, reo di aver usato armi chimiche contro il suo stesso popolo in una guerra civile che è costata finora centomila vittime, secondo stime indipendenti.

Il tema delle armi chimiche nella diplomazia internazionale è sempre vicenda complicata: tutti si ricordano che la pistola fumante contro Saddam Hussein presentata alla comunità internazionale in realtà fu il frutto di supposizioni e speculazioni politiche dell’amministrazione americana, allora convinta che “stabilizzando” l’Iraq ne avrebbe beneficiato tutto il Medio Oriente. La storia poi ci ha detto che non è andata così, ma questa volta tutto sembra diverso.

Innanzitutto, non è stato qualche osservatore Onu in vena di carriera facile a “confermare” quanto detto dai servizi segreti o dai governi: l’allarme è stato lanciato da un’organizzazione non governativa come Medici Senza Frontiere che non ha certo “vicinanze” con la politica estera americana. Poi gli Usa se hanno avuto una colpa finora, è stata caso mai quella di temporeggiare eccessivamente di fronte agli stermini della popolazione inerme. Non solo dopo l’allarme sull’uso di armi chimiche, ma fin dal principio delle rivolte.

Anzi, potremo dire che Obama tutto voleva in questo momento (tumultuoso nel nord Africa, con la Giordania sempre più fragile, per non parlare delle incognite Iraq e Afghanistan) che una guerra in Siria. Però il premio Nobel per la Pace – come ama fare – aveva messo una “red line” che anche dopo centomila morti fatti con armi convenzionali non si sarebbe potuta superare: l’uso di armi chimiche.

Purtroppo, per lui e per la Siria, quell’attacco sembra proprio esserci stato il 21 agosto con l’uccisione di 355 civili e il ferimento di altri migliaia, secondo quanto confermato dagli ispettori ONU. Lo ha detto chiaramente ieri sera il segretario di Stato John Kerry parlando di uso di armi chimiche “undeniable” (innegabile) e aggiungendo che il presidente Barack Obama sta prendendo una “informed decision” (dunque, una decisione che si basa su informazioni certe) su come rispondere.

Ed è questo il punto: a Washington ormai non si discute più se rispondere, ma come. Un’opzione è quella dei missili “Cruise” lanciati da uno dei quattro cacciatorpediniere della Marina schierate nel Mediterraneo, che avrebbero il pregio di mantenere la guerra lontana dai soldati Usa ma anche il difetto di non dare garanzie sulla possibilità di distruggere davvero le scorte di armi chimiche. Altrimenti gli Stati Uniti potrebbero usare anche jet militari, più precisi ma anche più esposti alla contraerea.

Il blitz, per il momento potrebbe fermarsi qui, con l’incertezza di distruggere le armi chimiche, ma la certezza di danneggiare l’arsenale siriano, dare una “lezione” al dittatore che dal 1963 non ha mai abolito la legge marziale, una mano ai ribelli e lanciare un assist agli amici israeliani che con qualche missile sulla Siria potrebbero approfittarne per far fuori qualche terrorista ricercato da anni, con lo spettro però di essere raggiunti a loro volta da un attacco missilistico, o peggio chimico.

E’ proprio l’escalation del conflitto su larga scala a preoccupare maggiormente gli Usa che per questo è facile che rispondano a Damasco in maniera “adeguata ma non eccessiva”. Il terreno per fare tutto velocemente appare fertile sia nella Nato (con Francia e Gran Bretagna, sconosciuto al momento il ruolo dell’Italia), sia all’ONU, dalla quale non arriverà mai alcun via libera all’uso delle armi visto il veto annunciato da Russia e Cina, storiche amiche di Damasco, ma neanche vincoli eccessivi se tutto sarà fatto in fretta. Non a caso il segretario generale Ban Ki-Moon ha ricordato che l’uso di armi chimiche è un crimine contro l’umanità e che va punito. La “coalizione dei Paesi volenterosi” sembra proprio pronta a farlo.

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