La lezione di Kennedy, tra mito e realtà
A mezzo secolo di distanza, nonostante le numerose biografie scritte ed i film girati (da quello di Oliver Stone all’ultimo proposto al settantesimo Festival di Venezia e firmato, non a caso, da Peter Landesman, giornalista d’inchiesta, corrispondente di guerra, scrittore di romanzi e pittore) rimangono ancora troppe ombre sull’ assassinio che sconvolse il mondo, quello di John Fitzgerald Kennedy, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963, mentre con la moglie Jacqueline visitava, sulla limousine presidenziale, la città del Texas per sanare alcune controversie sorte nel Partito Democratico, specialmente con chi lo accusava di trascurare la parte occidentale dell’America. Nelle ricostruzioni di questi giorni ritornano a galla le numerosissime teorie del complotto che si sono andate delineando subito dopo l’attentato, chiamando in causa anche responsabilità della Cia e soprattutto della mafia. La versione ufficiale, stabilita dall’Fbi prima e dalla commissione Warren poi, hanno indicato come unico colpevole l’ex militare, attivista e operaio Lee Harvey Oswald, arrestato a poche ore dall’agguato e ucciso in carcere due giorni dopo, il 24 novembre del 1963 da Jack Ruby, morto poi di cancro nel 1967.
E con i misteri che ci interrogano, riaffiorano non solo la «liason amorosa» con Marilyn Monroe ed il gossip sul secondo matrimonio della vedova Jacqueline con l’armatore Aristotele Onassis. Emergono in modo eclatante le divisioni tra storici e politologi nel valutarne la figura e soprattutto nel tentare di ipotizzare cosa il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti avrebbe potuto fare se la sua vita non fosse stata stroncata a soli 46 anni.
Su un punto almeno le analisi convergono: non c’è dubbio che quel momento storico abbia rappresentato lo spartiacque tra due generazioni. Una data che ha segnato, e spiazzato, la vita del popolo americano e del l’Occidente, solo come Pearl Harbor (1941) e le Torri Gemelle (2001). Il mondo era forse più fragile cinquanta anni fa, la Guerra Fredda sembrava avviarsi a un epocale punto di non ritorno. E proprio oggi, in occasione di questo 50° anniversario, dobbiamo rimeditare con obiettività e senza strumentalizzazioni, quell’esperienza unica che fu la lezione politica di Kennedy; la sua azione pacificatrice allora accomunata a quella di Papa Giovanni XXIII; la determinazione manifestata nel contrastare la politica aggressiva e spericolata di Nikita Kruscev , che nell’aprile del 1961, sfidò l’America installando missili nell’isola di Cuba per difendere il regime di un dittatore nascente, Fidel Castro. Prima che esplodesse un altro focolaio bellico, che ha avuto ben più pesanti conseguenze per gli Usa: l’inferno del Vietnam.
Cosa resta oggi di quel mito? Un editorialista solitamente documentato ed equilibrato come l’ambasciatore Sergio Romano, sul «Corriere della Sera» rende omaggio «all’uomo d’azione, eloquente», ma che «non fu un grande presidente». «Più che un leader dei diritti civili – ha scritto Romano – è stato un condottiero della Guerra Fredda». Il culto di Kennedy si sarebbe a poco a poco appannato, a partire dagli Anni Ottanta, anche nelle scuole americane. Poco importa – secondo questi commentatori – se presidenti Usa come Bill Clinton e Barak Obama abbiano conquistato e conservato la guida della Casa Bianca per un secondo mandato, ispirandosi proprio alla grande anche se ormai lontana esperienza kennediana.
Siccome anch’io dall’Italia l’ho recepita con tutto il mio giovanile entusiasmo di giornalista in erba ed ho pianto quando, attorno alle 19 di quel 22 novembre 1963, la Rai annunciò l’assassinio del presidente Kennedy, posso raccontare cosa essa abbia significato per la mia generazione. Con Martin Luther King, «JFK» alimentava le nostre speranze per un mondo migliore, dopo la Seconda Guerra Mondiale ed i difficili anni della ricostruzione italiana. Predicando la «Nuova frontiera» degli Anni Sessanta. La forte carica ideale, il linguaggio ispirato ed efficace, il nuovo modo di fare politica furono le sue carte vincenti, malgrado i pregiudizi per la sua fede cattolica, le resistenze preoccupate dei conservatori, il duro contrasto dei circuiti mafiosi e razzisti. Voleva soprattutto indicare le frontiere della scienza e dello spazio. In un periodo di ristagno economico interno e di forte contrasto con l’Unione Sovietica, Kennedy disse: «Queste frontiere non ci assicurano promesse, ma soltanto sfide, ricche di sconosciute occasioni, ma anche di pericoli, di incompiute speranze e di minacce».
Da quel tempo quest’espressione sintetizzò l’azione politica rinnovatrice iniziata dall’amministrazione Kennedy, sia nella distensione e nel disarmo degli armamenti nucleari, che in politica interna con i progetti di guerra alla povertà e alla disoccupazione, le leggi a favore dell’istruzione e il provvedimento di legge contro la discriminazione razziale nei luoghi pubblici, nelle scuole di tutti i livelli, nelle forze armate e nelle imprese pubbliche e statali, a rinforzo delle lotte per i diritti civili iniziato dal movimento di protesta degli americani di origine africana.
A Dallas, quindi, per noi è stato colpito (ma non abbattuto) un mito. Questo è stato il primo di una lunga serie di drammi che hanno segnato una delle famiglie – di origini irlandesi – più potenti d’America. Tanto che dopo l’uccisione di Bob (cinque anni dopo il fratello maggiore), si cominciò a parlare della «maledizione dei Kennedy». Un altro lutto, poi, ha pesato anche sulla carriera del terzo fratello, Ted, rimasto fino all’ultimo uno stimato «congressman», ma le cui speranze di arrivare alla Casa Bianca furono archiviate dopo il celebre incidente d’auto nel quale morì una sua collaboratrice. Drammatica anche la vicenda di John John, il figlio di JFK, scomparso in un incidente aereo nel 1999 a soli 38 anni.
Sulla scena politica ora resta solo la sorella Caroline Kennedy, che aveva sei anni quando il padre fu assassinato. Da pochi giorni è stata nominata da Obama ambasciatrice in Giappone. Così ha ricordato la lezione paterna, durante il giuramento. «Sono consapevole della responsabilità di rappresentare i suoi ideali – ha detto ai Senatori – per un forte senso del pubblico servizio, un’America più giusta e un mondo più pacifico». Un’altra Kennedy scende in campo. Ma difficilmente la vedremo nello studio ovale della Casa Bianca.
wavettore
Il 22 Novembre 1963 marco’ la fine di una America virtuosa e l’inizio di un nuovo capitolo che arriva fino ai nostri giorni. L’assassinio Kennedy e l’Undici Settembre sono due eventi che hanno cambiato la storia ed hanno in comune la CIA ed il Texas. Per meglio dire, hanno in comune una famigerata famiglia del Texas. Ma come potranno i peggiori criminali della storia moderna, la famiglia Bush, finire di fronte alla giustizia fintanto che i media sono cosi’ servili e l’opinione pubblica puo’ credere ad una storia come quella di Osama Bin Laden? La CIA non ha dovuto preoccuparsi molto delle Commissioni Warren o anche di quell’altra addetta all’Undici Settembre ma quanto tempo dovra’ passare prima che una nuova e reale investigazione provi a rispondere alle tante domande incluso come cadde l’edificio 7 nel giorno dell’Undici Settembre senza essere stato mai colpito da alcun aereo o altro? Piu’ importante del passato e’ il futuro e per conoscerlo basterebbe ignorare i media, unire i punti ed osservare un chiaro tracciato che non lascia dubbi.
PAOLO
Qualcuno ha scambiato J.F.K. per un pacifista?! nella sua breve vita da presidente mi sembra che non lo fosse per niente: ricordiamo l’attacco a Cuba (Baia dei porci); l’inizio della guerra del Vietnam; il pericolosissimo braccio di ferro con l’URSS per i missili a Cuba….Come si può parlare di una sua azione pacificatrice, paragonandolo a Giovanni XXIII o M.L.King?!