Sicurezza sul lavoro, la lezione di Prato
I MORTI DI PRATO. Qualche riflessione, a mente fredda, sulla tragedia che ha colpito la comunità cinese a Prato. I vigili del fuoco hanno trovato i resti di altre due vittime dell’incendio divampato in una fabbrica tessile nell’area del Macrolotto. Sale dunque a sette il bilancio dei morti (uno solo identificato) nello stabilimento “pronto moda” dove al piano terreno erano stoccate migliaia di abiti da confezionare e inviare ai negozi; tre gli intossicati da monossido di carbonio: due uomini sono in ospedale per problemi respiratori. Tutti di nazionalità cinese. I morti si trovavano all’interno del capannone, in loculi sopraelevati costruiti in cartongesso ma anche in semplice cartone per dividere i diversi ambienti.
IL SINDACO. Il sindaco di Prato Roberto Cenni ha proclamato il lutto cittadino ma ha dichiarato che bisogna fare ben altro, non solo limitarsi a commemorare chi ha perso la vita, ma impegnarsi ancora di più per evitare che questo accada di nuovo. Perciò Cenni è in contatto con il Ministero dell’Interno per trovare una soluzione che elimini il sistema organizzato di illegalità, che vede nella promiscuità tra lavoro e residenza una pericolosissima costante. In 200 metri quadrati ci sono stati tanti morti quanti alla Thyssen di Torino, e il pericolo esiste ancora perché e a Prato ci sono situazioni potenzialmente drammatiche come questa. Una è stata scoperta da vigili urbani e ispettori Asl proprio il giorno dopo la tragedia.
IL MACROLOTTO. Nel labirinto di ditte del “Macrolotto 1” (come viene chiamato l’insediamento industriale dov’è divampato il rogo), la maggioranza delle aziende è a conduzione cinese e con mano d’opera cinese. Le aziende orientali a Prato, secondo la stima della Camera di Commercio, sono circa 5 mila. Quasi 4 mila operano nel settore dell’abbigliamento. Nel corso dei numerosi controlli, intensificati negli ultimi anni, dalle forze di polizia, dai vigili del fuoco e dell’Asl è emerso come spesso, all’interno dello stesso capannone, ci sia un numero di ditte maggiore dell’unità immobiliare che le contiene: più aziende condividono frequentemente uno stabile, oltre che macchinari e parte della mano d’opera. La percentuale delle irregolarità cresce a dismisura se si ha riguardo agli abusi edilizi, igienici e di sicurezza: più della metà dei capannoni controllati sono risultati non conformi alle leggi.
IL GOVERNATORE. Anche il governatore toscano Enrico Rossi si è recato sul luogo ed ha affermato responsabilmente che «è necessario che il governo italiano insieme al governo cinese facciano un intervento congiunto su Prato. Servono più controlli, è vero, ma ancora di più e ancora prima serve una riqualificazione urbana e territoriale della zona. Qui siamo al di sotto della soglia dei diritti umani. Le imprese che qui lavorano spesso sono soggette al racket della criminalità cinese, quindi sono esse stesse sfruttate. Ci vuole un Piano di carattere strutturale che metta in campo anche rapporti di collaborazione per chiarire la situazione, per capire come si combatte la criminalità, come si fa a fare emergere questo asset industriale che può anche essere propositivo e positivo».
IL GOVERNO. In merito si è espresso anche il Governo, attraverso le parole del sottosegretario alle infrastrutture e trasporti Erasmo D’Angelis: «Ho chiesto ai ministeri degli Interni e del Welfare di rafforzare i controlli perché non è possibile che ancora oggi una città moderna e avanzata come Prato viva situazioni di questo tipo. Da parte nostra il prossimo Piano Città, che vedrà la luce con il nuovo ciclo dei Fondi strutturali europei 2014-2020, affronterà anche le problematiche produttive e sociali dal punto di vista infrastrutturale per il rispetto delle regole e delle norme sugli ambienti di lavoro».
IL PROCURATORE. La Procura della Repubblica di Prato ha aperto un’inchiesta. Tra i reati contestati, ha spiegato il procuratore capo Piero Tony, il disastro colposo, l’omicidio colposo plurimo, il reato di omissione di norme di sicurezza e sfruttamento di manodopera clandestina. «La maggior parte delle aziende sono organizzate così: è il far west» dice Tony. «I controlli sulla sicurezza e su ciò che è collegabile al lavoro, nonostante l’impegno dei tutte le amministrazioni e delle forze dell’ordine, sono insufficienti. Siamo sottodimensionati: noi come struttura burocratica, ha spiegato il procuratore, siamo tarati su una città che non esiste più, una città di 30 anni fa». Forse il Ministro della Giustizia dovrebbe occuparsi di questi problemi, e non soltanto di quelli della detenuta Giulia Ligresti.
COSA FARE. Sono tutti buoni propositi, ma occorre che alle intenzioni si sostituisca presto l’azione concreta. Il Governo dovrebbe affidare il coordinamento degli interventi necessari alla Prefettura di Prato che, facendo lavorare insieme i vari attori locali della pubblica e privata amministrazione, potrebbe dipanare alla svelta il bandolo della matassa. Ci vorrà certo la collaborazione delle Autorità cinesi (a Firenze esiste il consolato) e dei cittadini cinesi, ma si tratta di soddisfare un’esigenza imprescindibile di tutela della legalità e della civiltà del lavoro. Già nel 1988, quando Prato non era ancora provincia, esistevano problemi di coesistenza fra le comunità italiana e cinese nelle zone di San Donnino, Campi e Prato. La Prefettura di Firenze iniziò un’azione di coordinamento fra i vari soggetti interessati. Il lavoro iniziale dette buoni frutti, anche con l’ausilio della Caritas fiorentina, rappresentata da don Giovanni Momigli. Fra i funzionari che allora lavoravano in prefettura c’era anche l’attuale prefetto di Prato, Maria Laura Simonetti. A lei l’onore e l’onere di superare anche quest’emergenza, ma credo che saprà affrontarla e risolverla con competenza e professionalità.