Ascensione, l’omelia del cardinale Betori: «Dio non è assente»
FIRENZE – «Fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9). Sono le parole con cui il libro degli Atti offre una immagine visiva dell’evento salvifico che oggi celebriamo, l’Ascensione del Signore. Il significato di questo mistero conclusivo della vicenda storica del Figlio di Dio fatto uomo è affidato a una notazione di carattere spaziale, la sua dislocazione «in alto», e a una constatazione sensoriale, il venir meno della sua visibilità agli occhi umani. Il messaggio che queste due annotazioni comunicano è quello di una lontananza rispetto alla sfera dell’esperienza diretta, con cui fino a quel momento, prima e dopo la risurrezione, i discepoli si erano potuti rapportare al Signore. Non per nulla la medesima narrazione li qualifica come «quelli che erano con lui» (At 1,6). La prossimità fisica che aveva caratterizzato i rapporti tra Gesù e i suoi discepoli e che aveva permesso loro un’esperienza concreta di condivisione della sua vicenda storica, come pure ne aveva evidenziato la lacerazione nel momento in cui si erano allontanati dalla sua persona che veniva condotta al processo e alla croce – «Allora tutti i discepoli lo abbandonarono e fuggirono» (Mt 26,56) –, quella vicinanza fisica ha termine. Un fatto che genera spaesamento e incertezza, riassunti in quello sguardo perso nel cielo da cui li richiamano i «due uomini in bianche vesti» che «si presentano a loro» «mentre egli se ne andava» (At 1,10).
L’immagine di un cielo vuoto accompagna come una terribile prova l’esperienza religiosa dell’umanità. L’esperienza del male, che si diffonde nei tempi e nei luoghi e produce sofferenza e lacerazioni nel tessuto dell’esistenza personale e sociale, può far giungere alla messa in crisi del senso della vita e alla scomparsa di Dio come fondamento, riferimento e destinazione di essa. È il dramma del Dio assente, tante volte denunciato come intollerabile, in particolare di fronte alla malvagità diffusa e alla sofferenza dell’innocente.
Per chi subisce questa esperienza, la vicenda umana di Gesù può anche assumere un valore esemplare ma non apre alcuna condivisione di essa da parte degli uomini; perfino la risurrezione del Signore, a questi occhi annebbiati, può apparire come un premio individuale dato alla sua fedeltà, ma non uno spazio aperto alla speranza per la restante umanità.
Occorre pertanto riconquistare il significato dell’Ascensione, collegando l’immagine del distacco del Signore alle parole che egli condivide con i suoi prima di questo evento e che proiettano i suoi discepoli non nell’assenza e nel vuoto, ma nella pienezza di una presenza diversa, che sarà loro assicurata dal dono dello Spirito e che ne fonderà la loro testimonianza.
Questo, perché Gesù non abbandona i suoi, ma, al contrario, si rende presente alla loro vita in un modo nuovo, ma non meno efficace rispetto al tempo della presenza fisica, anzi di più. Il testo del vangelo di Matteo lo esprime dicendo che l’ascensione al cielo del Signore corrisponde di fatto a una presenza diversa assicurata per sempre: «Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Ed è una presenza in cui si esprime la condizione nuova del Risorto, a cui il Padre ha dato «ogni potere in cielo e sulla terra» (Mt 28,18). Non solo Gesù non si allontana dalla storia, ma ne diventa definitivamente il Signore. Lo esplicita ulteriormente l’apostolo Paolo nella lettera ai cristiani di Efeso: «Lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione… Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose» (Ef 1,20-22). Ma va anche specificato che questa signoria non è l’esito di un processo di asservimento del mondo, ma, al contrario, è la risposta alla donazione di sé che Cristo ha fatto, facendosi servo dell’umanità, fino alla Croce.
È questa presenza nuova del Signore che oggi celebriamo, riconoscendo che gli domina ogni potere malefico che si aggira nella storia e, mentre lo proclamiamo unico Signore di essa, anche noi possiamo partecipare alla sua vittoria sul male e sulla morte. Anzi, proprio attraverso di noi, suoi discepoli, egli può esercitare il suo dominio sulle forze ostili all’uomo e vincere ogni potere disumanizzante. Siamo discepoli di Gesù se accogliamo la sua chiamata a essere testimoni della sua risurrezione e della sua signoria nel mondo, contribuendo a portare nel mondo semi di novità, di speranza e di vita.
Mi sembra questa una chiave opportuna per leggere la storia dell’Arciconfraternita della Misericordia di Firenze, che oggi fa memoria dei 770 anni dalla sua fondazione. I gesti di carità che stanno alla base del servizio ai fratelli promosso dalla Misericordia costituiscono strumenti di lotta al male attraverso una condivisione vissuta nella donazione di sé agli altri. È questo un tratto importante per comprendere sia il senso della signoria di Cristo sia il senso del servizio dei membri della Misericordia. Alla radice della signoria sul male che si fa servizio alla persona umana sta il dono di sé, come sacrificio che trasfigura il mondo mediante la carità.
Facendo memoria della nascita della nostra Misericordia, che le storie collocano nel giorno dell’Assunta del 1244, non va dimenticato che essa scaturisce dall’azione apostolica di un fervente difensore della dottrina cattolica, contro le eresie del tempo, quale fu San Pietro da Verona, San Pietro martire; e non va dimenticato che essa nasce come emanazione di un’altra iniziativa dello stesso santo, che proprio in questo giorno dell’Ascensione del Signore dello stesso anno 1244, dopo alcuni mesi di fervente predicazione nella nostra città, vi aveva fondato la Società della Fede, da cui, di lì a poco, avrebbe fatto scaturire la Compagnia del Bigallo, per la cura dei fanciulli abbandonati e il servizio negli spedali, la Società delle Laudi, che doveva promuovere la pietà in onore della Vergine Maria, e la nostra Confraternita della Misericordia, per l’assistenza dei malati e la sepoltura dei morti. La radice della fede, difesa contro gli errori, genera diverse forme di servizio della carità e di preghiera. Sarà importante per la salvaguardia dell’identità della nostra Misericordia non dimenticare mai questa radice e questi legami, venendo incontro alle necessità di verità e di servizio che il mutare dei tempi propone.
Il gesto stesso della carità deve essere consapevolmente vissuto come un primo annuncio del Vangelo, come un contributo non secondario a quell’opera di evangelizzazione che i nostri tempi esigono e che deve caratterizzare la Chiesa “in uscita” (cfr. Evangelii gaudium, 20-24), come ama richiamare il Santo Padre.
Di questo “uscire” della Chiesa verso il mondo fa parte anche la capacità della comunità cristiana di essere presente con efficacia nel mondo sempre più complesso della comunicazione. Lo ricordiamo in questa domenica in cui nella Chiesa universale si celebra la 48ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, invitandoci a riflettere sulla “comunicazione al servizio di un’autentica cultura dell’incontro”. In un mondo dominato dalla frammentazione, segnato da fenomeni insidiosi di esclusione, che Papa Francesco definisce con efficacia come «cultura dello “scarto”» (Evangelii gaudium, 53), abbiamo bisogno che gli strumenti della comunicazione sociale non creino forme nuove di selezione e di sudditanza e che in essi sia presente con vigore quella comprensione dell’umano che, scaturita dal Vangelo, è capace di smascherare gli scopi occulti del pensiero unico e promuovere prossimità verso tutte le «periferie umane» (Evangelii gaudium, 46), sociali ed esistenziali.
L’ascensione del Signore non rende muta la buona notizia della salvezza, ma l’affida allo slancio apostolico degli evangelizzatori: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli…, insegnando loro…» (Mt 28,19-20), «e di me sarete testimoni… fino ai confini delle terra» (At 1,8). La parola secondo verità e la carità frutto del dono di sé sono forme tra loro congiunte di questa testimonianza resa al Signore della storia.
Giuseppe card. Betori
Arcivescovo di Firenze