
Betori: «Firenze, città che Dio ha collocato sulla cima più alta della civiltà cristiana»

L’esistenza di Giovanni il Battista appare tutta proiettata sul futuro. Lo mostra già lo scarto che si produce alla sua nascita, quando il padre rifiuta per lui un nome che lo legherebbe al passato della famiglia, per segnare invece questo figlio come «Giovanni», cioè un «dono di Dio», un frutto di grazia, una vita in cui si riflette la perenne novità di Dio.
Giovanni sarà una voce che annuncia qualcosa, anzi qualcuno che non è qui, ma deve ancora venire. Paolo, ad Antiochia di Pisidia, lo presenta con parole che riecheggiano quelle dei vangeli, in cui il Battista invita a non cadere nell’incomprensione circa la sua identità: «Io non sono quello che voi pensate!», e chiede di capirlo alla luce di chi «viene dopo» di lui.
Lo sguardo del Battista, la consapevolezza che egli ha del senso della propria vita e della propria missione è dunque tutta determinata dal futuro. Uno sguardo che suona come un richiamo per noi, uomini di un tempo tutto proiettato su se stesso, assorbito dalla voglia di esaurire ogni esperienza nel presente, dall’inclinazione a bruciare nell’oggi ogni possibilità, pur di avere tutto e subito. Per noi fiorentini, poi, nei riguardi del tempo, è viva anche la tentazione a tenere lo sguardo rivolto sul nostro glorioso passato, orgogliosi dell’eredità che ci è stata consegnata, come una risorsa certamente, ma non poche volte sentita come un fardello per la sua grandezza inarrivabile. Nostalgici del passato o catturati dal presente, quel che ne soffre è l’apertura al futuro, e la virtù che dovrebbe sorreggerla, la speranza.
Eppure, nel profondo del cuore di ciascuno è posto un desiderio incancellabile, un bisogno che non trova appagamento in facili risposte. Siamo tutti creature in attesa. Ma che cosa o, meglio, chi è capace di colmare l’attesa profonda del nostro cuore?
Per Giovanni, «dono di Dio», questa attesa ha una meta certa in colui che «viene dopo», Gesù di Nazaret, il dono del Padre per la salvezza del mondo. È Gesù che illumina la sua vita e gli dà significato, colmando l’attesa sua e del popolo.
Lo stesso sguardo al futuro è chiesto di assumere a questa nostra città, per un progetto di crescita armonica nel bene, attenta alle attese di tutti. Lo aveva ben capito Giorgio La Pira, che, parlando di Firenze, pur facendo riferimento al suo glorioso passato, di santità e di arte, interpretava però ultimamente la città con riguardo alla sua missione determinata dal futuro, cioè dalla città celeste di cui doveva farsi immagine: «Guardi Firenze dalla collina di San Miniato – scriveva a una claustrale – e mi dica: non Le pare il riflesso in terra della città del cielo? Lo specchio terrestre della Gerusalemme celeste? C’è nel mondo delle nazioni cristiane e non cristiane una città comparabile – per bellezza «teologale» – a questa città? Vi è città in cui Dio abbia profuso tutti insieme, quasi contemporaneamente, gli uni legati ed ordinati agli altri, tanti doni mistici ed artistici quanti ne ha profuso in Firenze? Si può dire davvero: alla quale han posto mano e cielo e terra!» (Giorgio La Pira, La preghiera forza motrice della storia. Lettere ai monasteri femminili di vita contemplativa, a cura di Vittorio Peri, Città Nuova, Roma 2007, p. 539 [giugno 1959]).
E questo non per un vago sentire del cuore, ma per una profonda ragione teologica: «Se Cristo è risorto –come è risorto – e se gli uomini, perciò, e le cose risorgeranno, allora la realtà presente (temporale) è veramente un abbozzo della realtà futura (eterna). La realtà futura – cioè la persona umana risorta, la società umana risorta (la celeste Gerusalemme), il cosmo risorto (nuovi cieli e nuove terre) – è il modello sul quale va modellata la realtà presente: il tempo deve divenire ciò che esso è per essenza e per destinazione, una preparazione ed un abbozzo dell’eterno» (Ivi, pp. 48-49 [Pasqua 1952]). Non siamo chiamati ad essere insufficienti epigoni di un passato glorioso, ma coraggiosi annunciatori di un futuro già scritto nella storia dalla potenza del Risorto!
La risurrezione di Cristo, centro vitale della fede cristiana, è il fondamento di un futuro colmo di speranza. La speranza è il grande dono che la comunità dei discepoli del Signore può e deve fare a tutto il popolo in mezzo a cui vive e di cui è parte. Ed è una vocazione specifica della Chiesa in questa città di Firenze, «una città che – Dio ha collocata sulla cima più alta della civiltà cristiana – … Firenze cristiana che attrae a sé tutte le città e tutti i figli della terra: a che fine? Per diffondere su di essa la grazia, la bellezza, la luce di cui Dio la ha arricchita» (Ivi, p. 427 [ottobre 1960]).
Ciò che viene generato dalla fede nel Risorto è la virtù della speranza, non una labile utopia o una pericolosa illusione, ma il riflesso, come in uno specchio, della verità circa l’uomo e la sua vita personale e sociale secondo una precisa forma che ne svela la radice di creatura divina.
Noi siamo qui a proporre a noi stessi e a tutti coloro che vogliono ascoltare la saggezza millenaria del Vangelo, l’immagine compiuta di umanità che splende sul volto di Cristo e di proclamare che l’incontro con lui è sorgente sicura di umanizzazione per tutti.
Proclamare questa verità, fonte di speranza, implica per noi una precisa missione, a cui non vogliamo sottrarci e di cui peraltro scorgiamo già segni consolanti tra noi. È l’impegno ad accompagnare ogni vita e ogni situazione umana con una presenza al tempo stesso esigente ed accogliente.
«Proclamare questa verità, fonte di speranza, implica per noi l’impegno ad accompagnare ogni vita, ogni situazione umana con una presenza al tempo stesso esigente ed accogliente. Esigente perché non possiamo transigere sulla Verità e Cristo, non possiamo addomesticare l’immagine di umanità che Cristo ci porta, a quelli che possono essere i compromessi che il tempo ci induce a chiedere. Dobbiamo in questo andare all’essenziale, gettare via tutti quelli che sono gli orpelli, le confusioni di cose inutili che si possono sovrapporre con i nostri desideri. E andare invece al desiderio ultimo, quello essenziale della nostra vita: essere come Lui, essere aperti ad una trascendenza che ci faccia superare le povertà di oggi e aprirci al tutto di Dio. Una verità su cui non si può transigere, ma anche una compagnia che non possiamo fare venire meno ai nostri fratelli».
Non possiamo transigere circa la verità, anzitutto per noi stessi, senza piegarci alle tendenze del tempo e soprattutto senza lasciarci invischiare dalle cose inutili. Il nostro patrono, già nelle vesti, fatte di peli di cammello, e nel cibo austero – cavallette e miele selvatico –, richiama a una essenzialità che anche negli stili di vita vuole ricondurre a ciò che conta.
Al tempo stesso, come il Battista si pone accanto alle folle in attesa, accompagnandole e orientandole verso il Cristo, così anche noi sentiamo di doverci fare compagni di strada di ogni uomo e donna che si misurano con la fatica della vita, soprattutto quando questa ha portato con sé ferite e sofferenze.
In questo orizzonte la speranza, di cui abbiamo estremo bisogno, si fonda sì sulla persona di Cristo risorto, ma si sostiene anche dei segni di vicinanza e di condivisione che possiamo scorgere tra noi, come un abbozzo di quella città celeste che dobbiamo edificare già in questo tempo. Va da sé, che nulla è sufficiente e che abbiamo bisogno ancora di una presenza vigile e fraterna, che raggiunga in particolare poveri, giovani e famiglie, per offrire una luce nel buio e un appoggio a cui sostenersi nell’incedere del cammino.
«Abbiamo bisogno di questi segni di essenzialità e di verità e di questi segni di vicinanza e condivisione che ci faranno scorgere già in mezzo a noi l’abbozzo di quella Città Celeste di cui noi dobbiamo essere anticipazione. Abbiamo bisogno di una presenza vigile nella verità e fraterna nella condivisione, che raggiunga soprattutto tre condizioni che mi sembrano particolarmente critiche nel nostro mondo di oggi: la condizione dei poveri, che crescono sempre di più, la condizione dei giovani, a cui sembra negato un futuro, la condizione delle famiglie, di cui è messa sempre in pericolo la saldezza. Non mancano in mezzo a noi in questi tre ambiti di responsabilità e di testimonianza impegni di solidarietà e di presenza e ne ringraziamo il Signore, sia in campo ecclesiale che in campo civile. Tutto quello che è a servizio dei poveri, dei giovani e delle famiglie è questo principio di abbozzo di Città Celeste che vuol essere vigilie nella verità e fraterna nella condivisione».
È questo l’impegno che sentiamo di doverci assumere davanti all’altare nel giorno del nostro patrono, per dare il nostro contributo alla rinascita della speranza a Firenze.