Articolo 18, direzione Pd: reintegro solo per casi disciplinari e discriminatori. Il rischio? Che diventino tutti licenziamenti economici
ROMA – Diritto al reintegro sul posto di lavoro solo per i licenziamenti discriminatori e disciplinari, mentre per quelli per motivi economici scatterebbe un indennizzo monetario. Il rischio? Che tutti i licenziamenti, d’ora in avanti, abbiano una motivazione economica. Difficile, a quel punto, come sostengono a caldo alcuni addetti ai lavori (magistrati e avvocati) che il dipendente mandato a casa possa dimostrare che la ragione del suo allontanamento è di natura diversa.
Questo il cuore dell’ordine del giorno approvato attorno alle 22.30 di oggi 29 settembre dai membri della Direzione del Partito democratico, in base al quale dovrebbe cambiare, qualora la riforma passasse in Parlamento, lo Statuto dei Lavoratori del 1970, e, in particolare, l’articolo 18, che disciplina i licenziamenti nelle imprese con più di 15 dipendenti (ammessi solo dietro giusta causa e a fronte dei quali, a tutela dei lavoratori, è stabilito appunto il diritto al reintegro stabilito dal giudice).
Alla fine l’odg del Partito è passato con 130 voti favorevoli, 20 contrari e 11 astenuti. L’ordine del giorno approvato afferma che la delega dovrà prevedere «una rete più estesa di ammortizzatori sociali», in particolare «con risorse aggiuntive a partire dal 2015»; una «riduzione delle forme contrattuali»; un rafforzamento dei servizi per l’impiego, integrando pubblico e privato e terzo settore». Per quanto riguarda la «disciplina sui licenziamenti economici», viene escluso il diritto di reintegro, che viene sostituito da una indennità economica commisurata all’anzianità di servizio; il «diritto al reintegro» rimane per il licenziamento discriminatorio e per quello disciplinare.
Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani sono tra i 20 esponenti della Direzione del Pd ad aver votato contro la relazione di Matteo Renzi. Tra i contrari anche Pippo Civati e gli esponenti della sua componente (Felice Casson, Cosseddu, Sarracino, Brignone, Terragni e Cova). Dei bersaniani hanno votato «no» Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre, Gianni Cuperlo, Barbara Pollastrini, Roberta D’Agostini, Davide Zoggia, così come il presidente della commissione Lavoro della Camera Cesare Damiano. Contro la relazione di Renzi anche il lettiano Francesco Boccia e la bindiana Margherita Miotto.
Il dibattito che ha preceduto il voto finale, dopo la relazione del segretario e presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è stato animato dai duri attacchi al premier da parte di Massimo D’Alema e Pierluigi Bersani. «Penso con sincero apprezzamento per l’oratoria – ha detto D’Alema – che è un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti e questo comincia a essere percepito nella parte più qualificata dell’opinione pubblica. Meno slogan, meno spot e un’azione di governo più riflettuta credo possa essere la via per ottenere maggiori risultati». Gli ha fatto eco l’ex segretario Bersani: «Attenzione: noi andiamo sull’orlo del baratro non per l’articolo 18 ma per il metodo Boffo, uno deve potere dire la sua senza che gli si tolga la dignità e io voglio discutere prima che ci sia un prendere o lasciare». «Definire questo governo privo di solidità, tutto slogan e annunci, va contro la realtà dei fatti», è stata la replica del segretario Renzi, che forse non si aspettava un doppio attacco politico così forte da parte dei due maggiori esponenti della vecchia guardia del partito, i più celebri «rottamati» dal premier.