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Stati della lingua, lo stilnovo dell’Italiano. Ma i politici non diventino anglo-barbari

Accademia della Crusca
L’Accademia della Crusca, a Firenze

Si è concluso il convegno sugli «Stati generali della lingua italiana nel mondo». Con quali risultati? Beh, una lunga esperienza congressuale ci insegna che da questo tipo di manifestazioni non c’è da attendersi granché. Certo, sono state lanciate idee, sono stati presentati progetti interessanti (alcuni dei quali promossi dall’Accademia della Crusca, il cui presidente, Claudio Marazzini, ha sfatato l’immagine del cruscante come barbogio purista pronto a bacchettare ogni minima infrazione alla grammatica, illustrando la multiforme attività dell’Accademia e mettendone in rilievo l’apertura internazionale).

MINISTERO – Il comunicato finale diffuso dal Ministero degli Esteri (titolo: «Stilnovo: azioni per l’Italiano nel mondo che cambia») accoglie alcune proposte avanzate dai gruppi di lavoro e presenta, tra le priorità operative, novità interessanti come l’inserimento dei laureati in didattica dell’italiano per stranieri e la creazione di un portale della lingua italiana, ossia di «una rete digitale dell’italiano all’estero che fornisca dati su scuole e cattedre di italiano all’estero, su accordi bilaterali in materia di insegnamento e riconoscimento di titoli, su iniziative didattiche, materiale didattico, informazioni al pubblico, ecc.». Si preannuncia inoltre una nuova convocazione a Firenze, nel 2016, per fare il punto e aggiornare gli orientamenti.

PROPOSTE – Tra proposte stimolanti ed esperienze personali talvolta di forte impatto emotivo, si sono però sentiti anche luoghi comuni e banalità. Va da sé che tutte le strategie idonee a promuovere la conoscenza della lingua e della cultura italiana – ivi comprese le più fantasiose – possono e debbono esser messe in campo; ma sentir parlare fino alla noia di sostegno alla musica lirica per fare di questa eccellenza italiana un veicolo privilegiato di diffusione del nostro idioma mi sembra francamente velleitario. Quanti saranno nel mondo i tenori e i soprano? Quanti gli appassionati di melodramma? Allora, coltiviamo pure tali opportunità di nicchia, ma prendiamo atto che si tratta pur sempre di numeri statisticamente poco rilevanti. Si è sentita persino magnificare l’iniziativa di avvicinare i piccoli all’apprendimento dell’italiano attraverso la gastronomia, insegnando loro contemporaneamente l’arte di confezionare appetitosi tortellini e i nomi degli ingredienti. È di sicuro un’idea simpatica (tutto fa brodo, e ben venga il tortellino a far conoscere un po’ d’Italia, anche se mi par difficile che la seduzione del manicaretto basti a trasformare i pargoli in adulti italofoni e italofili); resta il fatto che una seria azione promozionale non può basarsi su trovatine brillanti, sagre in miniatura e simili.

ISTITUTO UNIVERSITARIO EUROPEO – Paradossalmente, la proposta più lucida e concreta è venuta da un italiano d’adozione (proprio oggi gli è stata conferita la cittadinanza onoraria del nostro paese), il direttore dell’Istituto universitario europeo Joseph H. H. Weiler. Non facciamoci illusioni, ha detto l’illustre giurista: l’italiano, all’estero, resterà sempre la seconda (o, più probabilmente, la terza o quarta) lingua delle élite culturali, e soltanto di queste.

INGLESE – Quanto alla polemica sull’insegnamento in lingua inglese ormai adottato, almeno per i corsi di materie scientifiche, nei nostri più prestigiosi atenei, il professore ha tagliato corto con le insulse polemiche fra ‘tradizionalisti’ e ‘innovatori’. Pragmatico e deciso, Weiler ha detto che far lezione in inglese agli ingegneri va benissimo. Quello che non va bene è la finta internazionalizzazione: portare studenti stranieri (soprattutto cinesi, grazie all’accordo Marco Polo) in Italia, a nostre spese, solo per scalare le classifiche internazionali di qualche misera posizione. Terminati gli studi, che cosa porteranno questi giovani laureati, che formano tra di loro un gruppo chiuso, nel loro paese d’origine? Niente, o quasi. Non è questa la via giusta. Offriamo pure corsi in inglese: indietro non si torna, quella è ormai la lingua della scienza e della tecnologia. Ma obblighiamo chi studia nelle nostre università ad apprendere la nostra lingua, a entrare in contatto con la nostra cultura.

Perfetto, professor Weiler. Chi scrive ha abbandonato l’insegnamento universitario per varie ragioni, e tra queste c’era anche il senso di ridicolo e d’inutilità legato alla presenza, tra gli allievi, di un gruppetto cinese totalmente ignaro di qualsiasi rudimento d’italiano. Non è possibile insegnare una materia difficile e complicata come la filologia romanza a chi si rivolge al docente con queste parole: «Tu dale mi plogamo», anziché con una frase corretta del tipo «Professore(ssa), potrebbe per favore darmi il programma?». Che razza di farsa o di mistificazione è questa? Non si dovrebbe pretendere, prima dell’iscrizione, una minima competenza linguistica? Grazie, professor Weiler, per aver messo il dito in una delle nostre piaghe. Ora che è cittadino italiano, perché non ci dà una mano anche in politica, con le sue idee cartesianamente chiare e distinte, mentre altri c’inondano di promesse e di progetti vuoti di soluzioni valide ma, in compenso, zeppi di parole inglesi (versione aggiornata del latinorum degli azzeccagarbugli)? Perché «english is cool», fa fino e soprattutto… t’infinocchia meglio.


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