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Giorgio Napolitano

1915-2015: dall’Italia contadina al boom. Eppoi allo … sboom

Qualche giorno fa, l’addio al Quirinale del quasi novantenne Giorgio Napolitano (classe 1925) ha segnato la fine di un’epoca: l’uscita di scena dell’ultimo esponente dell’Italia dell’altro secolo. Ossia di quella generazione nata e cresciuta a cavallo delle due guerre mondiali, che ha sopportato di tutto, ma che è stata capace di trasformare l’Italia contadina in un Paese industrializzato. Oltre che straordinariamente industrioso. Insomma, la generazione che ha saputo fare il miracolo: il boom anni Sessanta. Cioè quei milioni d’italiani passati da Giolitti al fascismo; poi dalle rovine del ’45 alle elezioni del ’48; dalla ricostruzione alla nascita della Comunità europea e alla conquista di un benessere che è stato, a lungo, patrimonio di tutti.

Penso a questa generazione a suo modo eroica, passata in mezzo a mille contrasti e mille contraddizioni, eppoi progressivamente sparita quasi in silenzio, sepolta da rottamazioni, revisioni, pregiudizi. Mentre il Paese del boom finiva miseramente nello sboom. E nella crisi. Faccio questa riflessione pensando non solo al testimone lasciato da Napolitano (a chi ?) ma soprattutto ai milioni d’italiani che hanno sopportato di tutto per arrivare a fare grande e prospero questo Paese. Il lettore mi scuserà se mi sono fatto dettare questo pensiero da un anniversario e da una storia molto personali. Il 20 gennaio 1915, giusto cent’anni fa, nasceva, a Padova, Spartaco Bennucci. Il mio babbo. Di cui racconto in breve la storia non perché sia speciale, ma proprio per la sua somiglianza a milioni di altre. Lo cito come un caso comune, una sorta di milite ignoto. Solo a me noto. Uno che, appena messa fuori la testa dal grembo materno, si ritrovò all’orfanatrofio. Chi lo aveva messo al mondo non volle (o non potè) tenerlo. Fu salvato dal latte di qualche balia caritatevole e, poi, da quello di mucca. E un paio d’anni dopo, mentre l’Italia piangeva la disfatta di Caporetto, venne adottato da una famiglia contadina di un paese vicino al capoluogo: Cartura. Cioè da un uomo e da una donna che credevano di essere sterili: e che invece, negli anni a seguire, misero al mondo ben cinque figli. Toccò a lui, Spartaco, dare subito una mano alla famiglia andando a lavorare, a 10 anni, nei campi di una grossa fattoria.

Tempi duri, tanto sudore, fino alla visita di leva. Lo mandarono in cavalleria, a Pinerolo. Ma quando scoppiò la seconda guerra mondiale si ritrovò impegnato nella contraerea, in Puglia. Fino all’8 settembre del ’43. Quando, risalendo la Penisola, sbandato, partecipò alla guerra di liberazione. Si trovò ad attraversare l’Arno, a Firenze, il 10 agosto del ’44. Rimase ferito. Lo ricoverarono nel vecchio ospedale di San Giovanni di Dio, che allora era in Borgognissanti, dove rimase diversi mesi. Quando uscì, la guerra stava per finire. Voleva tornare a casa, nel Veneto quando, in via della Vigna Nuova, incontrò una ragazza. Le disse “ciao”. E non partì più. Mise su famiglia e lavorò come muratore. S’impegnò nel sindacato degli edili e partecipò alle lotte operaie. A metà degli anni Sessanta, un po’ prima di andare in pensione, mise i sanpietrini nel costruendo palazzo de “La Nazione”, vicino a piazza Beccaria. Quei sanpietrini che poi, da giornalista, ho orgogliosamente calpestato per quasi mezzo secolo. Sapendo di appartenere a una generazione diversa, in generale più fortunata. Una generazione (classe 1950, la stessa di Tiziano Renzi, il babbo di Matteo) che speriamo non abbia sbagliato qualcosa…


Sandro Bennucci

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