Banca Etruria: la Boschi teme per l’immagine, ma è Arezzo a restare spogliata
Gravi perdite del patrimonio: è con questa motivazione che mercoledì scorso il governo, su proposta di Bankitalia, ha commissariato Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio. A seguito di ciò, è scattato il decreto ministeriale che dispone lo scioglimento degli organi con funzioni di amministrazione e controllo di BPEL, società cooperativa con sede in Arezzo. Gli accertamenti ispettivi di Bankitalia sono ancora in corso, ma già i primi esiti hanno condotto alla scelta dell’amministrazione straordinaria. Ma cosa si cela dietro la gelida espressione “gravi perdite del patrimonio”? In parole povere, si tratterebbe di cattiva qualità del credito e di consistenti rettifiche sul portafoglio clienti prodotte lungo una gestione che, nel tempo, avrebbe di fatto sconfessato la vocazione popolare sulla cui base BPEL è nata. Per Arezzo e per i suoi cittadini, che considerano Banca Etruria come ‘una di famiglia’, è stato uno choc. Ma il commissariamento di BPEL è uno choc anche per il sistema finanziario ed economico toscano già messo a durissima prova dalle vicende legate al Monte dei Paschi.
Certo, che su Banca Etruria tirasse aria di crisi lo si annusava da tempo e non solo ai piani alti del tessuto cittadino e regionale. Nata per essere banca del territorio, BPEL ha nel tempo percorso la via di una separazione di fatto da questa mission originaria. Lo ha fatto in più di un modo. Ad esempio, non ha certo smesso di investire; peccato che talvolta ciò sia accaduto senza il ritorno atteso. Va da sé: la globalizzazione drena denari. Tuttavia, nelle banche popolari, di solito, si prevede che ciò che esce poi rientri. Qui, invece, parrebbe essersi verificata dispersione degli investimenti, con uscite senza piste di ritorno che hanno fatto sì che quanto erogato desse magari dei frutti, ma non nel territorio. Alcune operazioni, in particolare, hanno nel tempo destato pubbliche perplessità. Nel 2010 si è segnalato il caso dei 10 milioni concessi a un gruppo immobiliare forlivese sulla soglia dell’amministrazione controllata, poi c’è stato l’acquisto di Banca Popolare di Roma, poi ancora la partecipazione di maggioranza nella Banca Lecchese. E che dire dell’acquisizione di Banca Del Vecchio, pagata 114 milioni e stimata poco più di 50? O dei 14 sportelli acquistati da Unicredit con particolare concentrazione in Molise? Insomma: perché investire in realtà poco solide e comunque distanti dal meccanismo del ‘ritorno’ territoriale? Eppure è stato fatto. Così com’è stato compiuto un aumento di capitale che raggruppava azioni in maniera farraginosa anziché no. Il tutto seguendo le indicazioni di un consiglio di amministrazione i cui interessi, evidentemente, come è legittimo che avvenga non sempre hanno coinciso con quelli del territorio di riferimento, forse complice il fatto che per anni – secondo una prassi quanto meno infrequente – i componenti del Cda di Banca Etruria risulterebbero aver goduto della possibilità di richiedere e ottenere dalla Banca, per sé e per le proprie società, affidamenti per importi sostanziosi gestiti quindi in maniera fortemente discrezionale e secondo interessi relativi, dall’orizzonte di sicuro più limitato rispetto a quello ampio del territorio.
Insomma, è ovvio no? E’ nell’abdicare al legame territoriale che la Banca ha sviluppato il proprio cortocircuito, muovendosi secondo un sistema che per anni e anni – la prima ispezione dell’organo di vigilanza risale al 2002 e già dette luogo a giudizi in larga misura sfavorevoli, mentre alla seconda del 2010 seguirono rilievi specifici – ha sommato miopie ad errori fino a comporre un quadro tale da giustificare la decisione di Bankitalia, e dunque del governo. In questo senso, il caso non è solo legato alla finanza ma anche alla politica. Al di là della posizione del ministro Maria Elena Boschi (figlia del vicepresidente della banca commissariata), che si dimostra preoccupata più per la propria reputazione che per le sorti di Arezzo, la città si percepisce come seduta su vecchi schemi non esattamente catalizzatori di crescita e sviluppo. La vicenda di Banca Etruria racconta una città spogliata, mortificata, assediata, impoverita, trasecolata e surreale ed una classe dirigente che neppure si accorgeva di come 130 anni di storia oscillassero tra errori e ingiustificate – benché forse legittime – generosità. Quello tra Arezzo e la sua banca è un gioco di specchi che, ancora una volta, ci dice che il sistema di potere che ha governato la città ha fallito, e la sua resa è sotto gli occhi di tutti. Si vede che le priorità del Pd in questi anni son state altre, dislocate a distanza siderale rispetto ai bisogni e al sentire di Arezzo. Boschi docet.