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Cronenberg a Lucca? No, dietrofront per «motivi di famiglia»

Il regista canadese David Cronenberg
Il regista canadese David Cronenberg

LUCCA – Dal suo studio di Toronto, comodamente seduto, alle spalle una parete libri, l’aria tranquilla, attenta e vagamente ironica, da consumato romanziere wasp, via skype David Cronenberg ci informa che «purtroppo, gravi e imprevisti motivi di famiglia mi impediscono di essere a Lucca».

Innegabile la delusione per i tanti fans e per il Lucca Film Festival n°11 (15/20 marzo, da quest’anno unificato con Europa Cinema di Viareggio che di edizioni ne conta 33) e che al regista canadese affida l’ultima e conclusiva tappa di un circuito estremo e traumatico (non solo cinema) iniziato nel 2013 con Peter Greenaway e proseguito con David Lynch.

Quanto a bizzarrie comportamentali, profondità psicologiche, deliri mutanti e sperimentazioni ottiche, Cronenberg non ha niente da invidiare ai colleghi che l’hanno preceduto. Anzi. Il «sistema» da lui messo a punto – pensiamo alla così detta «apotemnofilia», ovvero la smania di amputarsi parti del corpo sentite come superflue o disarmoniche -, il repertorio di alienazioni concepito, il concertato di allucinazioni dispiegato, l’immaginario visivo che dialoga con Francis Bacon e Hermann Nitsch, rivela, se possibile, una ancor più devastante e recondita disarmonia con il disagio di vivere.

Un universo che niente ha a che fare con l’horror generalmente inteso e che misteriosamente entra in rotta di collisione con la sua vita privata. L’inferno domestico per Cronenberg è un paradiso. E il cannibale diventa un padre e un nonno affettuoso: “Sono una persona tradizionale, un borghese della classe media, sono sposato da 40 anni con la stessa donna (è lei la Carolyn destinataria del suo primo romanzo, «Divorati», uscito in Italia a settembre da Bompiani, ndr), ho tre figli e due nipoti. Siamo una famiglia convenzionale».

Più di così! Gli incubi di Cronenberg, a forte pulsione surrealista e in continua «derapata» (le macchine da corsa sono non a caso una sua vecchia passione) accendono lo schermo del festival (da «Stereo» del 1969 a «Maps to the Stars») e serpeggiano fra gli oggetti di scena disseminati in vari spazi, a Lucca (Fondazione Ragghianti, Museo Puccini, Archivio di Stato) e Viareggio (Galleria arte moderna e contemporanea).

Itinerario (auto) distruttivo e compulsivo di immagini e pensieri, fra manichini, protesi, fotografie, strumenti chirurgici e attrezzi ginecologici, marchingegni e macchinari, maquette e manufatti, memorabilia dai vari set, materiali scenografici, interviste, spezzoni, poster, bozzetti, storyboard originali e fotogrammi inediti, tutto un armamentario di strane creature che spremono la fisiologia, alterano la vista e deformano la fisiognomica. Padrone del campo e protagonista assoluto dell’inquadratura è il corpo. Fisicità malata e sessualità denudata, per una consapevolezza materialistica della vita che l’ateo Cronenberg licenzia senza mezzi termini: «Il corpo è la prima ed essenziale dimostrazione della nostra esistenza. Il corpo è ciò che siamo e ciò che abbiamo. Nei miei film il corpo è sempre al centro. Non me ne allontano mai. E quando accade mi sento sempre meno sicuro di me».

A ben guardare, quando meno te l’aspetti, c’è anche un po’ d’Italia in questo mulinello di accensioni e accelerazioni e cicatrici corporee. L’Italia dei motori e della velocità. Ducati e Ferrari. Entrambe rosse. Il mito a due e quattro ruote. Il cilindro della moto che sagoma la macchina per il teletrasporto di «La mosca» (ci finisce dentro Jeff Goldblum) e i bolidi di Maranello che forgiano l’installazione «Red Cars», tratta dall’omonimo libro oggetto del 2005, sceneggiatura per un film mai realizzato (avrebbe dovuto interpretarlo Mel Gibson), la rivalità fra Phil Hill e Wolfgang Von Trips azzerata dal terribile «crash» di Monza 1961, il primo Gp trasmesso in diretta dalla Rai, 15 morti (oltre al pilota tedesco) tra il pubblico assiepato alla parabolica. Le mostre restano aperte fino al 3 maggio.


Gabriele Rizza

Giornalista

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