
Firenze, omelia di Pasqua del cardinale: «Oggi scoppi la gioia, non solo il tradizionale Carro del fuoco»
Pubblichiamo il testo integrale dell’omelia pronunciata dal cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, alla Messa solenne nella mattina di Pasqua 5 aprile 2015 nella basilica di Santa Maria del Fiore, poco dopo lo Scoppio del Carro.

FIRENZE – «Con azzimi di sincerità e di verità» (1Cor 5,8): è quanto l’apostolo Paolo chiede ai cristiani di Corinto. Sullo sfondo di queste parole sta la Pasqua ebraica, che, nata come festa di un popolo di pastori seminomadi, per celebrare la transumanza verso i pascoli della primavera, si era trasformata nella memoria dell’evento fondante del popolo d’Israele, la liberazione dalla schiavitù egiziana, in cui peraltro l’urgenza della partenza non aveva concesso di far fermentare la pasta, così da costringere a portare via pani azzimi. Una volta entrato il popolo nella terra di Canaan, la festa di Pasqua si era fusa con un’altra festa, questa di origine agricola, tipica delle popolazioni sedentarie per celebrare la gioia della raccolta delle primizie del suolo, la prima mietitura, quella dell’orzo; una festa in cui si consumava pane non lievitato fatto da farina macinata dall’orzo nuovo, pane azzimo, cioè cibo privo della fermentazione prodotta dal lievito, in cui si vedeva un processo di alterazione delle sostanze, una loro manipolazione e quindi, simbolicamente, un decadimento dalla primitiva genuinità e integrità. Era questa la festa degli azzimi, in cui si mangiava pane azzimo e si liberava la casa da ogni traccia di lievito, una festa in cui si esprimeva l’aspirazione a un ritorno alle sorgenti pure del vita, a una innocenza originaria che non si voleva deturpata da trasformazioni peccaminose. A questa integrità Paolo richiama i suoi cristiani di Corinto, mettendoli in guardia dal ricadere nelle forme adulterate dell’umano che ne avevano caratterizzato l’esperienza prima della conversione a Cristo.
Una certa sete di autenticità è diffusa anche nel nostro tempo. Siamo affascinati ma anche impauriti di fronte alle possibilità di manipolazione che la tecnica offre all’umanità. Non c’è chi non veda che, senza per questo rinunciare di principio – per una sorta di integralismo conservatore – a ciò che può migliorare le condizioni di vita della gente, occorra però anche esercitare molta cautela, soprattutto quando si viene a toccare la sfera della biologia umana. Eppure alle molte diffidenze verso le modificazioni per ciò che attiene ad esempio al cibo, spaventati come siamo da sofisticazioni e contraffazioni, sembra che le barriere debbano per molti cedere quando si tratta di dare soddisfazione a ogni nostro miraggio, pur se si tratta del corpo umano e della sua naturalità, fino a non fermarci di fronte al dare vita a bimbi che dovrebbero riconoscersi figli di tre o quattro genitori o a non inorridire di fronte allo sfruttamento del corpo di donne costrette in situazioni di vera e propria schiavitù.
Altrettanto e ancor più preoccupante è poi la facilità con cui si assiste alla manipolazione dei canoni che hanno finora retto la visione morale, personale e sociale, condivisa da secoli sulla base di un’esperienza di popolo che vi ha visto una difesa essenziale per la propria identità e il proprio futuro. E qui non si tratta semplicemente di assumere un atteggiamento di cautela. Ciò che è in gioco nel venir meno di consolidati principi dell’umanesimo che si andato costruendo non senza un determinante influsso della fede cristiana, è infatti l’essenza stessa dell’umano, della persona e della convivenza sociale. Eppure sembra che oggi tutto possa essere considerato relativo e ciascuno possa aspirare al riconoscimento dei propri desideri come diritti, mentre per converso si assottigliano sempre più gli spazi della libertà di coscienza e della libertà religiosa. Siamo di fronte a una pericolosa involuzione dell’umanità, che scambia il progresso con la perdita di ogni ancoraggio a una forma condivisa dell’umano, e pensa che la giusta conquista della coscienza storica debba significare l’abbandono di ogni riferimento naturale, con la conseguente distruzione di quel terreno comune che solo crea le condizioni del dialogo tra gli uomini e quindi la stessa possibilità di una società coesa.
L’aspirazione a un orizzonte “azzimo”, puro e purificato, a una rinnovata primavera che porti via vecchi fermenti e permetta di edificare nella novità un progetto di persona e di società è ciò che va coltivato con cura in questo frangente storico. Con l’avvertenza che ciò esige un triplice impegno. Anzitutto la riconquistata idea di una dignità della persona umana, che non può essere lasciata all’arbitrario definirsi delle individuali aspirazioni e voglie, ma va riconfigurata a partire dal rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, a cominciare da quello alla vita, dal suo apparire nel seno materno fino al naturale compimento, per giungere al vertice della libertà di coscienza e religiosa; compiti che trovano impensabili ostacoli nel dibattito culturale e hanno bisogno di avere maggiore considerazione nelle decisioni legislative dell’occidente, troppo spesso tese a rendere possibile tutto, al di là di ogni valutazione etica e antropologica. Ma le persone si ricostruiscono solo se sono in grado di tessere relazioni autentiche, in cui l’io si riconosce nel dialogo con il tu per formare il noi, e questo è possibile solo se si difendono e si sostengono le cellule che costruiscono il corpo della società, a cominciare da quella cellula fondamentale che è la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna; un’attenzione che va chiesta a una società che deve favorire la famiglia, società naturale fondata sul matrimonio, così come afferma la nostra stessa Costituzione repubblicana, e rispettarla nella sua peculiarità come pure nella sua libertà educativa, fuggendo le logiche individualistiche che dominano i mercati e le mode ideologiche come pure quelle stataliste che, come testimonia il secolo appena concluso, hanno fatto solo del male al nostro continente. Infine, l’edificazione dell’umano chiede una svolta per quanto concerne i poveri e la loro inclusione sociale, tema particolarmente a cuore al nostro Papa Francesco; un impegno che ancora interroga profondamente la nostra convivenza sociale, perché nessuna giustizia sarà mai tale se non prenderà come misura dell’equità la situazione dei più deboli ed emarginati.
In tutto questo c’è però un passaggio decisivo, troppe volte dimenticato, e che la Pasqua provvede a richiamarci. La novità di cui il mondo, ferito e confuso, ha bisogno, di cui ciascuno di noi ha bisogno, non si ottiene ritornando nostalgicamente indietro, cercando invano di recuperare una genuinità perduta. Ciò che può condurci all’autenticità, alla verità, al rinnovamento sta davanti a noi, al termine di un cammino che non può escludere prezzi da pagare e sofferenze di cui farsi carico. Il Risorto è colui che prima abbiamo contemplato come il Crocifisso. Prima della risurrezione c’è un sepolcro che ha accolto il corpo esanime del Signore, un sepolcro che «il primo giorno della settimana […], di mattino, quando era ancora buio» (Gv 20,1) viene rinvenuto vuoto da Maria di Màgdala. Certo, per comprendere ciò che è realmente accaduto, occorre guardarlo con gli occhi di chi si lascia guidare dalle parole della Scrittura, come avverte l’evangelista (Gv 20,9), ma ciò nulla toglie alla storicità di quel fatto, di quei segni concreti che inequivocabilmente mostrano che la morte non tiene più Gesù in suo potere.
Questa certezza, che è a un tempo della storia e della fede, dà fondamento alla speranza. Davvero è possibile fare nuove le cose, la nostra vita, questo vecchio mondo, perché Gesù per primo è risorto a vita nuova e comunica questa potenza di vita e di novità a chiunque accetta di camminare dietro di lui. Chi accetta di camminare sulla strada della croce di Gesù, può essere certo che anche per lui si apre un orizzonte di vita nuova. È questa la gioia della Pasqua. Una gioia impegnativa, ma che non può essere oscurata da alcunché, perché riposa sul Figlio stesso di Dio. Una gioia contagiosa, perché chi ritrova alla luce di Cristo l’autenticità del proprio volto, illumina di questo splendore tutti attorno a sé.
È quanto auguro quest’oggi a me, a voi, alla nostra città. Per noi scoppi non solo un carro di fuochi, simbolo bello e a noi caro della fede pasquale dei nostri antichi, ma soprattutto una coscienza gioiosa che nella luce e con la forza del Vangelo di Gesù risorto è possibile portare la novità di vita che attendiamo per noi, per Firenze, per il mondo intero. Buona Pasqua.