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Natale 2025
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Dopo le dimissioni di Perotti: la misera fine della spending review

Renzi e Padoan
Renzi e Padoan

La lotta titanica dei vari governo con la riduzione della spesa pubblica va avanti da tempo senza apprezzabili risultati. Negli ultimi 8 anni abbiamo cambiato ben 4 commissari alla spending review. «In questa fase non mi sento molto utile», ha spiegato l’altra sera Roberto Perotti, prof della Bocconi, entrato nemmeno sei mesi fa nello staff di Palazzo Chigi ed ultimo in ordine di tempo a gettare la spugna.

Il termine inglese «spending review», ovvero «revisione della spesa» è stato introdotto nel gergo politico italiano nel 2006 – allora c’era al governo Romano Prodi – da Tommaso Padoa Schioppa, all’epoca ministro del Tesoro. Tradotto in italiano significa analisi delle spese e del funzionamento dei vari apparati allo scopo di migliorare la performance della macchina pubblica e di risparmiare così sulle spese. Da noi, invece, la formula è sempre stata interpretata in una sola direzione: tagli non mirati, per lo più lineari che colpivano tutti i settori.

Dopo Giarda e Bondi, i primi due commissari coi governi Berlusconi e Monti, il Governo Letta nel 2013 ha incaricato Carlo Cottarelli, il supertecnico del Fondo monetario. Il suo era un piano molto ambizioso: subito, nel 2014, 7 miliardi di risparmi, quindi 18,1 nel 2015 (poi ridotti a 16) e addirittura 33,9 (quindi scesi a 32) nel 2016. Cottarelli vuol chiudere 2 mila partecipate, accorpare i centri di spesa, tagliare sanità, pensioni, province, corpi di polizia, fondi per le imprese e auto blu.

Dopo Letta arriva Renzi e il lavoro di Cottarelli, appena abbozzato nei mesi precedenti, si affloscia definitivamente. Palazzo Chigi per prima cosa cassa i progetti sulle pensioni e stoppa il taglio di 85 mila dipendenti pubblici. E i risparmi? Si continua con la vecchia prassi dei tagli lineari (o semilineari) introdotti da Tremonti. Ma da 16 ci si deve fermare a quota 8,5 miliardi. Anche Cottarelli a questo punto rinuncia.

Lo scorso marzo Renzi dà l’incarico all’accoppiata Gutgeldt – Perotti, ma anche quest’ultimo abbandona dopo sei mesi. Il suo piano comprende interventi sostanziali sulla fiscalità (eliminazione di detrazioni, sconti e bonus vari) ma Renzi lo ferma perché non vuole aumentare in alcun modo le tasse, neppure eliminando i sostanziosi sconti o detrazioni di cui godono molte categorie. A questo punto lascia anche Perotti e così la spending review 2016 che puntava a un obiettivo ambizioso (16 miliardi) frana: prima scende a quota 10 e poi va addirittura sotto i 5. Per far quadrare i conti in manovra Renzi preferisce puntare sull’aumento del deficit.

Morale della storia: i tecnici che si succedono studiano e propongono grandi interventi che potrebbero effettivamente risanare l’abisso della spesa, ma alla fine la politica si mette di traverso perché i tagli sono impopolari o costringono ad aumentare le tasse. E nessuno, nemmeno il governo tecnico di Monti, e tantomeno Renzi, ha voluto e vuole rendersi inviso agli elettori, che al momento di andare alle urne si ricorderebbero sicuramente dei sacrifici che un governo ha loro imposto.


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Paolo Padoin

Già Prefetto di FirenzeMail

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