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Premio Nobel per la letteratura: assegnato a Bob Dylan, poeta della canzone. Ecco la sua storia

Bob Dylan
Bob Dylan

STOCCOLMA – Il premio Nobel per la Letteratura 2016 è stato assegnato a Bob Dylan. Il cantante e poeta, nato nel 1941, all’anagrafe risulta essere Robert Zimmerman, è stato insignito del premio, come recita la motivazione, per «aver creato delle nuove espressioni
poetiche all’interno della traduzione della grande canzone americana». Qualcuno ha storto il naso. Qualcun altro ha esaltato la scelta. Ma non c’è dubbio che sia stata una scelta non banale. Fra l’altro annunciata nel giorno della morte di Dario Fo, altro discusso Nobel per la letteratura

Dal menestrello della protesta dei primi Sessanta, alla trilogia elettrica culminata con lo storico «Blonde on Blonde», alle crisi religiose (cristiana ed ebraica, una sola sarebbe banale), al ritorno al blues degli ultimi dischi, senza dimenticare le recenti cover natalizie o di Frank Sinatra, e sempre impegnato nel suo «Never-ending tour». Non uno, molti Robert Zimmerman, alias Bob Dylan, al quale si somma oggi il fiammante Premio Nobel per la letteratura. Ripercorrere anche solo brevemente la biografia dylaniana è un
compito arduo, non da ultimo perché lo stesso Dylan – gelosissimo della sua vita privata – ha fatto di tutto per confondere le
tracce e non dare mai certezze al suo pubblico; già negli anni Sessanta, con «My back pages» avvertiva: «Giusto e sbagliato, senza dubbio ho definito questi termini in modo molto chiaro, ma ero molto più vecchio e oggi sono molto più giovane di allora».

Uno dei pochi dati non controversi sono la data e il luogo di nascita: Duluth, il 24 maggio del 1941; e la data del fatidico trasferimento a New York, il 1961, dove dal Greenwich Village (con l’aiuto di Joan Baez) inziò la sua carriera. Nel 1966 sposò la prima moglie, Sara Lowndes, da cui ebbe quattro figli (solo Jakob ha seguito le orme paterne, con discreto successo); la coppia divorziò nel 1977 e a svelare il secondo matrimonio con Carolyn Dennis (durato dal 1986 al 1992, con una figlia) fu una biografia non autorizzata. Tutto questo nella vita di un uomo impegnato nella stesura di una trilogia autobiografica, della quale è uscito solo il primo volume – nel 2004 – incentrato però sugli anni precedenti al successo: il Dylan privato rimane quindi ancora essenzialmente un mistero, come del resto è indubbio desiderio di “His Bobness”.Il Dylan pubblico, nel senso di quello che lo stesso Dylan ritiene l’unico che per il pubblico valga le pena di conoscere, si riassume meglio con qualche statistica: 37 album, dall’eponimo Bob Dylan del 1962 a Fallen angels del 2016, ai quali vanno
aggiunti 12 volumi (spesso doppi e tripli) delle Bootleg Series, perché Dylan forse non prende troppo sul serio i fan, ma questi
prendono molto sul serio la dylanologia e i completisti costituiscono un mercato sufficientemente vasto da solleticare l’interesse della Columbia.

«My back pages» simboleggiò l’addio alla prima delle matrioske che compongono l’immagine pubblica di Dylan: quella appunto del menestrello di Duluth, del novello Woody Guthrie che canta a favore dei diseredati; immagine arricchita peraltro da un simbolico passaggio del testimone fra i due folkies nel corso di una visita di Dylan all’ospedale dove giaceva Guthrie, peraltro mai confermata e probabilmente apocrifa. «Blowin in the Wind», «Masters of War» le prime ballate in cui Dylan utilizza la sua maestria dell’immagine biblica – e uno stile ermetico: non a caso esiste su internet un generatore di canzoni dylaniane) – per dipingere scenari apocalittici, armato di una chitarra acustica e di un’armonica (di cui si rivelerà un virtuoso). Due anni scarsi e Dylan muta pelle, con la celebre
conversione all’elettricità che scandalizzò i puristi ma rese il rock finalmente maggiorenne.

Accompagnato dal chitarrista blues Michael Bloomfield e dall’organista Al Kooper, Dylan salì sul palco di Newport, tempio del folk americano, per annunciare il nuovo verbo: fosse stato per Pete Seeger, che minacciò di tranciargli il cavo della chitarra elettrica con un’accetta, la sua carriera sarebbe finita lì: ma fra il 1965 e il 1966 uscì la trilogia (Bringing it all back home, Highway 61 e il doppio Blonde on Blonde) che costituisce forse il punto più alto della sua discografia, completo di un tour europeo (inizio della lunga
collaborazione con The Band) nel quale non mancarono le contestazioni del pubblico alla svolta elettrica. Per tutta risposta, Dylan
cambia ancora: si dà al country (Nashville Skyline, con la partecipazione di Johnny Cash), giungendo persino a sfoggiare un nuovo stile vocale; il misterioso incidente di motocicletta lo terrà lontano dalle scene per un anno (tornerà sul palco in occasione del Concerto
per il Bangladesh dell’amico George Harrison): gli anni Settanta saranno caratterizzati dalla prima svolta religiosa (Saved, Slow Train Coming con la partecipazione di Mark Knopfler).

Gli anni Ottanta sono un periodo musicalmente difficile, come per tutti i dinosauri del rock – in realtà, è la qualità generale del decennio musicale ad essere decisamente diminuita – tanto che solo Infidels finisce nella Top Twenty americana. I Novanta vedono un ritorno al folk e al traditional con due album di cover (Good as I been to you e World gone wrong) mentre Dylan cambia di nuovo pelle ed assume
l’immagine del cantautore crepuscolare: Time out of mind o Love and theft sono punteggiati dai riferimenti alla morte e al
tempo che scorre inesorabile. Inevitabile dunque che l’ultima edizione musicale di Dylan lo veda impegnato in un album natalizio e ben due dischi di cover di Sinatra, quanto più lontano dall’universo musicale – e dallo stile vocale – di Robert Zimmerman, che in fondo non ha giurato lealtà a nessuno stile, a nessuna divinità e certo a nessun pubblico: è fedele solo a se stesso. O come recita un verso di
Absolutely Sweet Marie, una della tante ballate al vetriolo di Blonde on blonde: «Tutti possono essere come me, ovviamente, ma
per fortuna non tutti possono essere come te».

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