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Firenze: teatro gremito e applausi a scena aperta per le «Sorelle Materassi» di Lucia Poli e Milena Vukotić

1 LOW Sorelle Materassi

FIRENZE – Un Teatro della Pergola gremito fino all’ultima poltrona ha accolto le «Sorelle Materassi» interpretate da Lucia Poli, Milena Vukotić e Marilù Prati, tributando allo spettacolo molti applausi a scena aperta, oltre che alla fine.

Certamente li hanno meritati fino all’ultimo le formidabili Lucia Poli (Teresa) e Milena Vukotić (una palpitante e flessuosa Carolina). È sempre una gioia vedere sul palco, e per di più insieme e affiatatissime, due grandi attrici che, in barba all’anagrafe, sanno parlare al pubblico con la voce e col corpo, espressive in ogni minimo gesto, dietro cui si percepisce, oltre al talento naturale, la profondità dello studio; un piacere tanto più intenso quanto più si sta facendo raro, in un’epoca in cui pressoché chiunque, dopo due fictions televisive e senza alcuna formazione degna del nome, si crede pronto per il teatro. Una buona spalla alle due primedonne l’ha offerta Sandra Garuglieri nei panni di Niobe ed è piuttosto ben calato nella parte anche il Remo di Gabriele Anagni.

Il testo di Palazzeschi, si sa, è delizioso, e regge bene anche alle riduzioni per la scena; qui Ugo Chiti ha operato tagli pesanti, com’era ovvio, volendo ridurre un romanzo non breve a un atto unico di un’ora e mezzo: di tutta la lunga storia delle due lavoratrici indefesse, dalla condotta irreprensibile ma dal cuore troppo tenero con lo scapestrato nipote-figlio adottivo, che finisce col devastarle come il loro genitore, gran viveur, aveva devastato la moglie, facendo ritrovare le giovanissime figlie orfane e in una miseria nerissima da cui si erano tirate fuori votandosi letteralmente alla loro arte di cucitrici e ricamatrici, è scartata di netto la prima parte, condensata in pochi minuti di allusioni all’inizio, e si punta sulla fase della decadenza, pur attenuando il lato drammatico con una buona dose di comicità. E qui si inserisce la nota più dolente: l’originale è ironico, spiritoso, satirico, grottesco, ma mai volgare; Palazzeschi si sarà rivoltato nella tomba, se gli sarà arrivata la battuta di Palle (reso un po’ troppo simile al Ceccherini dei film più di cassetta), che a un certo punto piazza un «M’importa una sega» accolto con giubilo da quasi tutto il pubblico (e questo spiega fin troppo bene la scelta: una concessione agli spettatori avvezzi alla comicità di stampo televisivo e cinematografico; non è la prima e non sarà l’ultima, tra Amleti che mostrano il dito e Falstaff che parlano come scaricatori di porto). A parer di chi scrive non è necessario, per attualizzare, far scadere nella scurrilità contemporanea un linguaggio che otterrebbe i suoi bravi effetti comici anche limitandosi ai coloritissimi insulti originali (come «Quella cimbardosa!»). A parte questi nei, è uno spettacolo già rodato (dopo il debutto al 50° Festival teatrale di Borgio Verezzi, è partito in tournée a gennaio) e che vale la pena di vedere anche solo per le due fantastiche, sempreverdi mattatrici.

Repliche fino al 24 febbraio (lunedì riposo)

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