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Firenze: teatro pieno e buon successo per «Il Flauto magico» di Mozart all’Opera di Firenze

Tamino e Papageno con le Tre Dame (in veste di suore un po’ boccaccesche)

FIRENZE – In un teatro esaurito anche in platea ha debuttato «Die Zauberflöte», ovvero «Il flauto magico» di Wolfgang Amadeus Mozart. Buona l’accoglienza del pubblico, anche perché l’assistente di Damiano Michieletto, che ne ha ripreso la regia, non è uscito sul palco e non si è potuta testare fino in fondo la reazione all’allestimento non propriamente canonico.

Molto applaudito, a ragione, il Tamino di Juan Francisco Gatell, di gran lunga il migliore in campo (incantevole la sua interpretazione di «Dies Bildnis ist bezaubernd schön» nel primo atto, magistralmente accompagnata dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino guidata da Roland Böer), ben spalleggiato da Ekaterina Sadovnikova (Pamina). Tiene, nel complesso, tutto il cast, che per le parti principali (salvo Tamino) è in buona parte lo stesso che ha debuttato a Venezia nel 2015 in questo stesso allestimento, coprodotto dal Maggio col Teatro La Fenice. La Regina della Notte Olga Pudova pareva quasi che esitasse a uscire, forse perché conscia che le scelte di regia hanno un po’ offuscato la sua resa nella prima aria (che le viene fatta cantare in pieno accesso isterico, mentre si china a ingozzarsi di tranquillanti spaccandone i flaconi per terra), ma va detto che nella seconda e più famosa aria («Der Hölle Rache»), iniziata un po’ incolore, è poi decollata raggiungendo effetti drammatici notevoli (benché pure lì poco aiutata dalla regia, che la costringe a recidere a coltellate i capelli di Pamina mentre snocciola le note più impervie).

Sulla regia i commenti del pubblico all’uscita erano, com’era ovvio che fosse, contrastanti. Si tratta infatti di una di quelle che si definiscono regie di concetto: Damiano Michieletto si prende molte libertà col libretto di Schikaneder e traspone l’azione in una scuola dove, con abiti novecenteschi più o meno anni Cinquanta-Sessanta, si muovono il preside Sarastro, una maestrina un po’ psicolabile che sostituisce la cultura con la superstizione, uno scolaro svogliato (Tamino)… La magia è concentrata quasi esclusivamente nella lavagna e nelle proiezioni di Carmen Zimmermann e Roland Horvath, a volte affascinanti a volte fin troppo naïf, che vi si susseguono. La mano sicura del regista si sente, anche se la sua personalissima lettura ogni tanto sfocia nel didascalico e non tutte le trovate paiono egualmente efficaci: se risulta molto suggestiva la scena coi due armigeri nel secondo atto (resi con due schermidori in nero che compongono, con Pamina e Tamino, un quadro quasi metafisico), pare una caduta di gusto un tantino eccessiva il mostrare Monostato, trasformato in studentello grasso e rossiccio (per essere politicamente corretti evitando il negro si sbeffeggia il ciccione brutto e quattrocchi? Scorrettissimo: fa il paio con la sostituzione della battuta «È una negra!» con «È una racchia!», per dire non è nemmeno una donna, nel «Cappello di paglia di Firenze» rappresentato al Comunale nel 2011), che si dà all’onanismo davanti a Pamina esanime. Nessuna contestazione significativa in sala, comunque: a Firenze il senso dell’umorismo non manca e i più, all’idea di far di Papageno un bidello con la scopa in mano, hanno reagito sghignazzando (benché Alessio Arduini, interprete del personaggio, sia stato l’unico bersaglio di qualche isolata espressione di dissenso). D’altronde molti spettatori erano stati resi inclini alla benevolenza, alla fine del duetto fra Papageno e Papagena, da cinque piccoli Papageni comparsi sul palco, ad aprire l’amplificazione del lieto fine scritto nel libretto (qui si salvano tutti, anche Monostato e la Regina della Notte, in una perfetta ricomposizione degli opposti).

Repliche Venerdì 24 marzo, ore 20, Sabato 25 marzo, ore 20, Domenica 26 marzo, ore 15:30, Martedì 28 marzo, ore 20, Mercoledì 29 marzo, ore 20. Pochi biglietti disponibili.

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