La crisi può giustificare in alcuni casi comportamenti illeciti. Una sentenza ardita della Corte di cassazione
Quando si dice che l’Italia è il paese dei legulei e degli azzeccagarbugli non si è molto lontani dalla verità. Siamo uno Stato nel quale le leggi approvate dal parlamento, in numero incredibile e spesso in contraddizione fra loro, servono talvolta non tanto a regolare qualche settore o a punire determinati comportamenti, ma a fornire a avvocati e magistrati la possibilità di sfrenare la loro fantasia interpretativa per arrivare al risultato che si prefiggono. Facciamo l’esempio della più recente sentenza dei supremi giudici della cassazione in materia tributaria, un esemplare esercizio di equilibrismo giuridico per giustificare determinati comportamenti in sé illegali, ma degni però di considerazione sociale.
Ecco il caso. E’ stato accolto dalla Cassazione il ricorso – contro la condanna a un anno di reclusione per omesso pagamento delle tasse come sostituto di imposta – di Vanessa Zaniboni, legale rappresentante della Lupini Targhe, azienda del settore automotive con stabilimento a Pognano (Bergamo) travolta dal fallimento dopo un investimento industriale in Messico che ha generato un crac milionario sul quale la Procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per bancarotta fraudolenta. Ad avviso dei supremi giudici, la Corte di Appello di Brescia che ha condannato l’imprenditrice pur avendole ridotto l’iniziale condanna a un anno e sei mesi, deve riesaminare la vicenda per appurare se effettivamente la Zaniboni abbia deciso di non pagare le tasse per utilizzare la liquidità per pagare gli stipendi a circa 250 tra operai e collaboratori ritenendo in questo modo di non compiere un illecito.
Ad avviso della Cassazione, sentenza 6737 anticipata nei giorni scorsi dal sito Cassazione.net, occorre tenere presente che l’esigenza di considerare in una luce diversa l’imprenditore che non paga il debito d’imposta è già all’attenzione della “dottrina” ed è “insorto da una globale situazione economica”, insomma dalla crisi, che apre “spazi di manovra” per non considerare più come dovuta esclusivamente alla ”mala gestio” del singolo imprenditore la “sopravvenuta crisi di liquidità dell”impresa”. In altre parole, e non si sa se questo è il caso
della Zaniboni, i giudici quando valutano il comportamento di un imprenditore in crisi che decide di pagare gli stipendi anziché
le tasse, devono essere anche pronti a riconoscere la mancanza di dolo in chi ”onestamente” compie questa scelta con la convinzione che i lavoratori necessitino dell”immediata corresponsione “non di somme di denaro di per sé”, ma di “mezzi di sostentamento necessari” per loro e per le loro famiglie.
Un ragionamento che non fa una grinza e che prende in considerazione positivamente la finalità di tutelare la sopravvivenza di svariate famiglie, a fronte dell’oggettiva realizzazione di un illecito. E’ però un ragionamento che ci può portare molto lontano. Se la giustificazione di carattere sociale è tale da cancellare un reato, sparisce la certezza del diritto, soprattutto se le motivazioni sociali saranno ritenute, ad esempio, giustificative dei molteplici illeciti compiuti dai migranti, spinti dalla loro situazione di difficoltà e di disagio.
Dove andremo a finire di questo passo? Già la gente comincia a ritenere necessario in taluni casi farsi giustizia da sola, incitata a ciò da alcune singolari sentenze dei nostri giudici. E gli avvocati difensori saranno indotti a invocare sempre più non solo le cause di giustificazione previste dal codice penale, ma soprattutto quest’altra, generale e soggetta a interpretazione molto discrezionale, la giustificazione di un comportamento illecito per motivi latu sensu sociali. La certezza del diritto a questo punto andrebbe definitivamente a farsi benedire, ma in Italia ormai tutto è permesso, ai danni delle persone rette e oneste.