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Morire con dignità: il contributo autorevole al dibattito del Presidente della Fondazione Stensen

FIRENZE – Riceviamo e pubblichiamo volentieri questo interessante contributo in materia di diritto all’eutanasia, inviatoci da P. Ennio BROVEDANI sj, Presidente della Fondazione Stensen di Firenze.

«Nell’ormai vasto e articolato dibattito politico contemporaneo circa il possibile riconoscimento di un diritto all’eutanasia nelle diverse modalità in cui il paziente può essere aiutato a morire (eutanasia passiva, attiva, o suicidio assistito) si trovano oggi a confronto due posizioni contrapposte , con le loro proprie sensibilità, approcci interpretativi e pareri. Entrambe sono consapevoli della complessità e novità delle problematiche implicate e evitano prudentemente ogni forma di intransigenza.

La prima posizione, generalmente sostenuta dalle grandi tradizioni religiose e spirituali, si fonda sul principio del rispetto della dignità
del paziente, filosoficamente e teologicamente intesa come “valore intrinseco di ogni essere umano”. La vita umana – comunque se ne interpreti l’origine – è per sua natura una realtà trascendente e, in quanto tale, “sacra” e intangibile. Non può quindi essere lasciata alla libera disposizione dell’uomo.

In modo completamente diverso, i sostenitori della seconda posizione – a favore dell’eutanasia – ritengono invece che il “morire con dignità” implichi un diritto che deve essere riconosciuto a chi ne fa richiesta o ha lasciato disposizioni in merito.

Il problema politico, però, non risiede tanto nel prendere posizione rispetto a queste due concezioni di dignità umana – espressione di due antropologie contrapposte – quanto, semmai, nell’interrogarsi sul significato e le conseguenze dell’assunzione e del mantenimento di queste divergenze nell’ambito del dibattito in atto sul modo di gestire la fase terminale della nostra vita di fronte alle crescenti possibilità di scelta offerte e prospettate dagli sviluppi delle tecnologie biomediche, pur assumendo il principio, universalmente riconosciuto, che
“non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche eticamente ammissibile”.

Le differenze tra queste due concezioni della dignità umana sono infatti rilevanti e, in una società sempre più plurale, si pone il problema politico di elaborare un metodo (una strada) che consenta un superamento delle divergenze, nel rispetto dei valori propri delle comunità civili, culturali, etniche e confessionali di appartenenza.

E il tracciare una strada comune esige degli “espropri”, ossia, delle possibili e sostenibili rinunce da entrambe le parti.
L’esperienza e il buon senso, del resto, ci insegnano che non è sano né saggio da parte di una società vivere e sostenere uno scarto troppo marcato tra regole affermate e realtà vissuta.
Un eventuale impegno solidale esercitato in modo più o meno clandestino rischia, infatti, di essere parziale e anarchico. Si instaura inoltre una sorta di ambiguità etica negativa : da una parte, ipocrisia e clandestinità, dall’altra, esiti disparati e divergenti in funzione delle procedure scelte e delle diverse istituzioni competenti interpellate.
La dignità umana intesa in senso assoluto , per es., è inalienabile e non quantificabile ; un’infermità fisica o mentale ereditata o
accidentalmente acquisita non ne sminuisce il valore, e affermare che in certe situazioni l’eutanasia o il suicidio assistito consentono una morte più degna, non ha senso. Ma anche la dignità intesa come dimensione e condizione etico-normativa soggettiva o personale,
rischia di essere troppo condizionata dai propri vincoli valoriali identitari – senza escludere possibili conflitti d’interesse – per proporre una gestione politica della fase terminale dell’esistenza umana condivisa, che contempli un presunto diritto individuale ad una morte anticipata o prematura, a discrezione del richiedente.

Non è facile gestire correttamente l’insieme di questi problemi e dilemmi , ma occorre sforzarsi di trovare dei compromessi ragionevolmente convincenti e accettabili, che tengano conto di tutte le possibili implicazioni e conseguenze, ricadute antropologiche e sociali, e consentano una gestione del “morire” rispettosa della dignità del paziente e dei valori aggiunti propri della comunità civile,
culturale, etnica, spirituale e confessionale di appartenenza.
Un compito questo che rappresenta una delicata sfida politica per i prossimi anni ed esige delle adeguate e non comuni competenze.»

F.to P. Ennio BROVEDANI sj FONDAZIONE STENSEN

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