Libia: dimissioni di Serraj. Le tre ragioni del gesto. E gli scenari del dopo
TRIPOLI (LIBIA) – Fayez al Serraj ha annunciato il suo sincero desiderio di dimettersi entro la fine di ottobre per tre ragioni. E nella speranza che per allora si sia raggiunto un accordo con l’est sulla nascita del nuovo Consiglio presidenziale e del nuovo governo. Da tempo, ricostruiscono con l’Adnkronos fonti libiche, l’ingegnere 60enne prestato alla politica diceva che i libici non potevano più vedere le stesse facce del 2015, quando con gli accordi di Skhirat nacque il Consiglio presidenziale ed il governo riconosciuto internazionalmente. Lui pensa di andare a fare l’ambasciatore a Londra.
Raggiunto il mese scorso l’accordo con Tobruk sul cessate il fuoco e sull’avvio del percorso politico, Serraj è più che mai convinto della necessità di aprire una stagione di cambiamento: il Consiglio presidenziale ha ormai esaurito le sue funzioni, servono nuove elezioni e lui ha proposto che siano convocate a marzo del 2021. Una data che Serraj sarebbe disposto a spostare in avanti, se dai colloqui politici in corso dovesse invece emergere la preferenza per una fase transitoria in preparazione del voto.
Il secondo motivo è legato al ruolo: «Dal punto di vista dei rapporti interni al Consiglio presidenziale – sottolineano le fonti – è molto difficile ricoprire quell’incarico, come ha dimostrato di recente lo scontro con il ministro dell’Interno Fatih Basghaga e le polemiche sul rimpasto, che alla fine ha potuto fare solo in maniera parziale». Senza dimenticare le proteste dei giorni scorsi, che però ormai accomunano l’est e l’ovest. Infine Serraj ha pensato che l’annuncio della sua disponibilità ad andare via non appena ci sarà un accordo potrebbe dare un contributo al successo dei negoziati di Montreux. Quello che però non è chiaro è cosa succederà – si
dimetterà comunque o resterà al potere – se entro la fine del mese prossimo non si arriverà a quell’accordo auspicato sul nuovo Consiglio presidenziale (con un presidente e due vice scelti che dovranno provenire dalle tre regioni libiche), sul premier e sul governo.
Alcune fonti che hanno avuto modo di parlargli direttamente sostengono che Serraj voglia in ogni caso evitare un vuoto di potere, mentre altri osservatori ritengono l’opposto, circostanza che creerebbe un’ulteriore situazione di instabilità. «E’ stanco, ha dato troppo e non vede l’ora di andare a fare l’ambasciatore a Londra», dice una fonte. Che, in questa fase, ritiene prematuro un totonomi sul dopo Serraj. Nei giorni scorsi, parlando con l’Adnkronos, Ashraf Shah, ex consigliere dell’Alto consiglio di Stato, ha fatto il nome di Mohamed Ammari Zayed, membro del consiglio presidenziale, il più credibile di tutti, uno degli architetti degli
accordi di Skhirat, uomo di esperienza internazionale, ex docente universitario a Manchester, originario di Warfalla, ma poi cresciuto a Bengasi».
«Mi sembra che corriamo un po’ troppo – sostengono le fonti – ci sono troppe variabili che ancora non conosciamo: se si fa l’accordo e con chi, cosa farà Haftar, cosa faranno Turchia e Russia, che sono interessate allo status quo. Certo, Ammari è un personaggio di grande valore e di grande onestà». Intanto anche a est si registrano grandi turbolenze. Domenica scorsa, dopo giorni di proteste di piazza e anche di attacchi a sedi istituzionali, che erano state in parte represse con metodi dittatoriali da Khalifa Haftar, si è dimesso il governo parallelo presieduto da Abdullah al Thinni.
Sul quale il generale della Cirenaica è ben contento di aver fatto ricadere la responsabilità del malcontento, mentre lui ha perso quasi tutti i suoi sponsor internazionali, tranne gli Emirati: l’Egitto ormai da tempo si è spostato sul presidente del Parlamento di Tobruk Aguila Saleh, mentre i russi, dopo lo sgarbo dei mesi scorsi a Vladimir Putin con la mancata firma dell’accordo sul cessate il fuoco, lo usano solo in modo strumentale in funzione antiturca.