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Nato potenzia truppe Est Europa, ma Serbia ricorda anniversario bombe Nato nel 1999, 2.500 morti

Belgrado 1999
1999 bombe Nato su Belgrado

BRUXELLES – “La Nato deciderà oggi di dislocare altri quattro battlegroup sul fronte Est, in
particolare in Bulgaria, Romania, Slovacchia e Ungheria, per fare fronte alla minaccia russa. Ma non manderà né truppe né aerei in Ucraina perché vuole evitare l’escalation del conflitto”, ha ribadito il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg.

BELGRADO – Mentre la Nato condanna le bombe di Putin, ma annuncia potenziamento della sua presenza ai confini della Russia, la Serbia ricorda in questi giorni la campagna di bombardamenti Nato che nella primavera 1999 posero fine alla guerra del Kosovo. Un intervento quello di 23 anni fa attuato senza mandato Onu e che contribuisce ad alimentare ancora oggi nel Paese balcanico un sentimento ostile nei confronti dell’Alleanza Atlantica, ritenuta un autentico aggressore contro un Paese sovrano e indipendente. Aggressione infatti e non bombardamenti è il termine che i serbi utilizzano per indicare la campagna di raid della Nato protrattasi per due mesi e mezzo e conclusasi con il ritiro delle forze serbe dal Kosovo. E a testimoniare l’aggressione subita, nel centro di Belgrado – pesantemente colpita dai raid – sono stati lasciati in rovina e alla vista di tutti alcuni enormi edifici, sedi allora del Ministero della Difesa e dello Stato Maggiore, centrati e sventrati dalle bombe alleate.

I raid della Nato scattarono, su ordine dell’allora segretario generale dell’Alleanza Javier Solana, la sera del 24 marzo 1999 con i primi cacciabombardieri decollati dalla base di Aviano, nel nordest dell’Italia, e si conclusero il 9 giugno dopo 78 giorni di martellanti bombardamenti che colpirono obiettivi militari ma anche civili, causando la morte di almeno 2.500 persone e il ferimento di altre 12 mila. Danni valutati in decine di miliardi di dollari furono provocati alle infrastrutture, strade, ponti, impianti industriali, scuole, ospedali, sedi di giornali, musei, teatri e siti culturali. Un intervento quello della Nato deciso senza il mandato Onu e dopo il fallimento di vari tentativi negoziali in sede diplomatica, con l’obiettivo, definito ‘umanitario’, di indurre il regime dell’allora uomo forte Slobodan Milosevic a porre fine alle repressioni, alle violenze e alla pulizia etnica in Kosovo, e al ritiro delle truppe serbe da quel territorio, dove entrarono circa 40 mila soldati della Nato con la missione Kfor. Tale Forza è ancora presente in Kosovo seppur con effettivi ridotti di dieci volte.

L’episodio scatenante dei raid viene ritenuta la strage di una quarantina di persone di etnia albanese da parte dei serbi a Racak, località a sud di Pristina. Mentre la parte kosovara sostiene che si trattò di un massacro di persone innocenti, secondo Belgrado le vittime erano militanti dell’Esercito di liberazione del Kosovo (Uck, la guerriglia indipendentista albanese), ritenuto dai serbi una vera e propria organizzazione terroristica. Un’operazione quindi attuata per garantire la sicurezza nazionale. Ma la comunità internazionale non accettò le giustificazioni di Belgrado denunciando un crimine efferato contro i civili. Quattro anni fa è stata costituita in Serbia una speciale commissione incaricata di indagare sulle conseguenze dei bombardamenti Nato con l’impiego di uranio impoverito, ritenuto la causa di numerosi casi di tumori. Finora da tale commissione sono state presentate già alcune denunce contro la Nato.

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