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Cardinale Betori: ultima omelia da arcivescovo di Firenze. “Chiedo perdono se non sono stato all’altezza della storia di questa città”

Il cardinale Giuseppe Betori (Foto Toscana Oggi)

Pubblichiamo integralmente l’omelia proclamata questo pomeriggio, 16 febbraio 2024, in Cattedrale dal cardinale Giuseppe Betori nella celebrazione per il saluto al termine del suo ministero episcopale a Firenze. Nell’ultima parte i saluti del cardinale alla città di Firene a tutti. Il direttore Sandro Bennucci e tutta la redazione di Firenze Post porge un ringraziamento a Betori anche per l’opportunità che ci ha sempre offerto di pubblicare i suoi scritti. L’abbuiamo fatto per uno spirito di servizio non solo verso il mondo cattolico, ma anche per coloro che osservano la Chiesa con spirito laico.

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Pur nel carattere singolare di questa celebrazione, restiamo fedeli al
dovere di ancorarci alla parola di Dio che la Chiesa propone nella liturgia.
Il riferimento anzitutto è al testo del profeta Ezechiele, parole rivolte
a un popolo disorientato nell’esilio. La promessa che Dio aveva fatto a
Davide – «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te»
(2Sam 7,16) – appariva smentita dalla storia: il regno davidico era
scomparso dalla scena dell’Oriente, sotto il dominio babilonese. Alla fede,
messa alla prova, risponde la parola del profeta: Dio prepara una novità
nella storia, perché un discendente di Davide verrà insediato sul monte
Sion, così che tutti i popoli ne riconoscano la sovranità e tutti gli uomini
sappiano che il Signore è il vero Dio. A questo progetto di Dio occorre dare
fiducia, anche se esso apparirà nella forma fragile di «un ramoscello», che
però, piantato sul monte Sion, crescerà e diventerà «un cedro magnifico»
(Ez 17,22.23).
Simile è la situazione che, nel vangelo di Marco, si ripropone per
Gesù: troppo umile egli appare, e la gente fatica a riconoscere in lui e nella
sua missione la presenza del Salvatore. All’attesa di un Messia che avrebbe
dovuto rivoltare il mondo, aprire un tempo senza ingiustizie e sofferenze,
porre sotto il suo controllo tutti i poteri, Gesù risponde rinviando al potere
racchiuso nel piccolo seme che egli sta piantando nel mondo, la presenza di
un Dio che nella fragilità apre la storia alla sua pienezza. Di lì a poco
questo potere si mostrerà su una croce, preludio di risurrezione. In questa
debolezza, come nelle nostre debolezze, quando sono partecipazione al
sacrificio della croce, è nascosto il mistero del Regno che viene. Questo è
anche il mistero della Chiesa, presenza debole nel mondo, pur nei segni di
bene che lo Spirito rende possibili.

Questa è la missione della Chiesa: porre i semi del Regno. Questo è
il ministero di un vescovo: porre semi, affidando ad un Altro, al Signore
che lo ha inviato, la crescita e i frutti. In questa logica, la logica non dei
frutti ma del seme, vorrei collocare anche la mia presenza tra voi in questi
anni. Anni in cui, alla fragilità che accompagna sempre la vita della Chiesa
nel tempo, si sono aggiunte le debolezze della mia persona, di cui oggi
sono qui a chiedere perdono: perdono per non essere stato all’altezza della
storia di questa città, soprattutto delle vostre attese. So che mi volete bene,
come io lo voglio a voi, e che, indulgenti, non mi negherete la vostra
comprensione.
Non è questo il luogo e il momento di un bilancio, che peraltro vorrei
in ogni caso evitare, non spettando il giudizio a me o ad altri, ma solo a
Dio, alla cui misericordia mi consegno. Con voi oggi vorrei invece
condividere lo spirito e i riferimenti a cui ho ancorato il mio servizio a
questa Chiesa fiorentina. E voglio farlo prendendo spunto da alcuni segni
che mi stanno particolarmente a cuore.
Il primo è rappresentato da questa cattedrale, uno spazio grande, si
direbbe perfino eccessivo, immenso. Questo spazio, a chi vi si affaccia,
presenta una profondità che ne lascia indefinito il limite. La nostra
cattedrale, vista dall’esterno, sembra aver voluto non solo attingere il cielo
con la sua cupola, ma anche aver voluto colmare ogni spazio, fino a negare
una possibile adeguata piazza. Tutto questo si spiega se si considera la
chiesa non come uno spazio altro in mezzo al mondo, un luogo ritagliato
rispetto alla città, ma come un elemento connaturale a essa, uno spazio in
cui dimensione civile e religiosa non si dividono ma si integrano, come
dicono le effigi che troviamo sulle pareti delle navate laterali, segni della
storia di Firenze: di chi l’ha difesa, di chi l’ha illustrata con l’arte, di chi ne
ha edificato lo spirito e la cultura. La cattedrale di Firenze non ha bisogno
di una piazza, perché essa stessa si propone come spazio che accoglie la
città tutta. Non c’è uno spazio del sacro separato rispetto a un mondo
profano, ma uno sguardo di fede che penetra la storia e la vita di tutti con
spirito accogliente e di condivisione. Mi ha profondamente colpito e ho
cercato di far mio fino in fondo questo essere Chiesa immersa nella città,
pronta a entrare nei suoi spazi, in dialogo con tutto ciò che edifica la
comunità degli uomini.

Qui faccio mie le parole che Mario Luzi, nel suo Opus florentinum,
ha posto in bocca alla nostra cattedrale: «L’anima di Firenze si risveglia – e
si riconosce in me, riprende – fierezza dalla mia presenza. […] Vorrei
fossimo uniti tutti insieme, figli miei, per essere una roccia – su cui posare
il piede – chi arriva – e prendere slancio per il volo. Perché questo ci è
chiesto, – figli miei, di crescere – nel tempo: questo ci giustifica. […] Figli
miei, voglio essere il luogo – per la crescita degli uomini, – tutti, di ogni
provenienza e origine. […] Leggere e ahimè vivere i tempi, non
misconoscerli o negarli – è ancora parte del ministero mio sopra la terra. –
Che questo sia fatto degnamente – in reciproca profferta – di magistero e
perenne apprendistato» (M. LUZI, Opus florentinum, Parte seconda, 7: Fiore
della fede, 2000).
A questa intenzione di non separare mai la Chiesa dalla città si
collega anche il secondo segno che mi ha ispirato in questi anni. In questa
cattedrale, nelle celebrazioni più solenni, si entra guidati da uno stendardo,
la grande bandiera che esalta la croce di colore rosso su campo bianco. È sì
il vessillo del Risorto, come ce l’ha consegnato la storia dell’arte, ma è
anche, per noi, l’insegna del popolo. Mi ha sempre commosso e chiamato a
responsabilità percorrere passi segnati insieme da Cristo e dal popolo,
rafforzando in me la convinzione che le strade di Dio non sono diverse
dalle strade degli uomini, quando questi percorrono le strade sicure che li
edificano nella verità.
In questi anni non ho cercato di proporre una mia strada, ma ho
cercato di cogliere le strade di Dio nel cammino del popolo. Questa è la
linea tracciata dal nostro stendardo: stare in mezzo al popolo, non staccarsi
mai da esso, anche a costo di qualche rallentamento, ma curando di tenere
salda la trama del tessuto ecclesiale, evitando strappi in avanti, che possono
suscitare qualche plauso ma che inesorabilmente generano anche ferite. Ho
sentito come mio compito di pastore tenere insieme il popolo di Dio, nelle
inevitabili tensioni, cercando di evitare rotture; indicare la strada al gregge
senza perdere qualcuno per troppa fretta e al tempo stesso preoccuparsi di
non perderne altri per inerzia, senza però frenare il cammino di tutti, nella
convinzione che nella fede del popolo, il santo popolo di Dio, risplende la
verità del Risorto.
E giungo al terzo segno, in cui sento racchiuso un altro aspetto
significativo del ministero episcopale, così come ho cercato di viverlo tra voi.

È questa cattedra, la sede da cui il vescovo spezza il pane della Parola
per il suo popolo, il gesto che per me racchiude il senso più profondo del
ministero di un pastore. Spezzare la Parola, perché non ci sono verità da
scoprire, bensì solo da ascoltare: tutto è già detto nel Vangelo di Gesù. A
un pastore è chiesto solo di connettere questo tutto con la mutevolezza del
presente, ponendo la parola di Dio come una luce che giudica e salva, che
svela le vicende del mondo nella loro verità e indica a tutti l’orizzonte del
superamento delle povertà umane. Di nuovo si ripropone, anche in questa
prospettiva, l’unità tra Dio e l’uomo, tra verità e storia, tra Cristo e il
popolo.
È accogliente questa cattedra episcopale: ti fa sentire abbracciato
dallo scorrere della tradizione della fede nel tempo. Al tempo stesso, però,
è uno spazio esigente, proprio perché chiede di non umiliare la grandezza
della tradizione. È una sede scomoda, in quanto impone di essere fedeli alla
verità e quindi pronti a parlare con parresìa, senza indulgere alla tentazione
di essere approvati a ogni costo, senza scansare l’incomprensione e anche il
rifiuto. È una sede impegnativa, perché vuole che la verità sia annunciata
con attenzione ai destinatari, cioè con amore, e l’amore non basta mai.
Confesso che non è stato facile tenere insieme tutto questo.
Ma c’è un altro elemento che mi ha sempre attratto in questa
cattedra: la sua forma. Questa sede ci viene da lontano, dal XV secolo,
legata alla memoria di Sant’Antonino Pierozzi. Mi incanta il suo slancio
contenuto, la dolce curva che mi accoglie, senza bisogno di alcun fregio per
esprimere bellezza pura, nella semplicità di una materia, il legno, che è
materia viva, che respira e si plasma in rapporto all’ambiente; una sede che
non affida alla ricchezza o agli orpelli ma al semplice proporsi la forza di
esprimere il suo significato. Vi riconosco un’espressione tipica dell’arte
fiorentina, che è sintesi tra cultura della bellezza e sobrietà delle forme, in
un paradigma di luminosa armonia. Un’armonia che non è frutto di
livellamento e omologazione, ma esito di composizione di tensioni, anche
profonde, come quelle che reggono la nostra cupola. Per dire questa natura
semplice, lineare, del bello, e quindi del vero, non ci sono parole più
appropriate di quelle, ben note, con cui Giorgio La Pira definiva il volto di
questa città: «La mia dolce misurata e armoniosa Firenze, creata insieme
dall’uomo e da Dio» (Discorso al Comitato Internazionale della Croce
Rossa, Ginevra 12 aprile 1954), riassumendone così l’identità: «Firenze ha

una sua propria universale missione nel sistema della civiltà cristiana ed
umana: essa inserisce, infatti, nel dinamismo così attivo del mondo
moderno un elemento equilibratore di riposo, di bellezza, di
contemplazione, di pace» (Lettera a Indro Montanelli, 15 febbraio 1953).
Quel che in questi anni ho cercato di indicare, non sempre riuscendoci, mi
sembra che lo dica da sé questa sede: misura, equilibrio, armonia, riposo,
bellezza, contemplazione e pace sono l’identità profonda, oltre le fattezze
immediate, istintive, anche polemiche e aggressive, di questa città e quindi
della Chiesa fiorentina, sintesi di tensioni composte.
Qui mi fermo, non volendo annullare nel moltiplicare i riferimenti la
forza dei segni a cui ho fatto ricorso.
Devo però dirvi un altro sentimento che è cresciuto in me in questi
anni. Mi sono sentito, giorno dopo giorno, dentro alla storia dei pastori che
hanno portato splendore alla storia della Chiesa fiorentina, la cui
esemplarità mi ha intimorito ma anche sostenuto: da Zanobi, maestro
nell’annuncio e nella difesa della fede, ad Antonino, ispiratore di unità tra
fede e vita e promotore di soccorso ai poveri, a Elia Dalla Costa, testimone
di santità austera e protettore coraggioso degli oppressi. Riferimenti alti,
esigenti ma anche rassicuranti: si sta dentro una storia che ci porta.
A conclusione voglio lasciarvi alcune parole che siano celebrazione
ancora di questo incanto che è la cattedrale dei fiorentini, per quindici anni
e qualche mese mia cattedrale, figura del mistero che regge ogni nostro
sforzo di dare un senso al tempo, perché mistero di un tempo abitato da
Dio; parole non mie, che prendo in prestito a un amico, il poeta Davide
Rondoni.
Sono parole che ci conducono alla sorgente stessa del nostro stare
qui, che danno forma alla speranza, che sostengono la preghiera per me e
per voi: «Qui avviene il gran contrario – dei cieli e della storia – qui cielo
viene giù – in Maria del Fiore – precipita lui, cielo – giù dal cielo per
amore – qui la cupola è lei […] – la cupola è il suo ventre […] – incinta,
lievitato – […] cielo, il suo segreto – s’è incarnato… […] ؘ– Vieni cielo di
Firenze – con tutti i cieli dentro – […] nelle nostre più segrete solitudini –
nelle gioie e nelle moltitudini – di pene, nel silenzio, nel rumore – vieni in
ogni big-bang del nostro amore – ogni sospiro del nostro dolore – non
lasciarci in pace, cielo – azzurro, cielo brace – […] visita le nostre stanze

cielo dei cieli – di Firenze – supplicato, inaspettato – vieni cielo, cielo
vieni, vieni sempre!» (Davide RONDONI, Con cielo dentro, 2022).
Vieni Signore Gesù! Vieni nella nostra Chiesa! Vieni tra le strade e
le case di questa città, che un tempo ti riconobbe suo re! Vieni al nostro
mondo, abita le sue gioie e le sue ferite. Vieni Signore Gesù!

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