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Madonnina del Grappa, i primi 100 anni: l’omaggio dell’Arcivescovo a don Giulio Facibeni

Il ritratto di Don Facibeni di Annigoni
Il ritratto di Don Facibeni di Annigoni

Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento dell’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli, all’apertura delcentenario dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa (1924-2024).

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Signora Sindaca, Signor Presidente della Regione, care amiche e cari amici,
oggi ci troviamo insieme ad aprire l’anno centenario dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa, non tanto una commemorazione quanto l’inizio del centesimo anno di attività dell’Opera voluta da don Giulio Facibeni.

Si tratta, per la Madonnina del Grappa, per la Chiesa e la Città di Firenze, di un anno di riflessione sul significato storico e quindi sulla particolare vocazione che deriva dall’eredità di don Giulio Facibeni.

Fra Facibeni e Firenze vi è, infatti, un legame che questo anno centenario può rinverdire. Ritengo che come città e come chiesa, immersi in processi profondamente trasformativi, abbiamo bisogno di riconoscere le radici buone della nostra cultura, del nostro tessuto sociale e della nostra esperienza cristiana per alimentare un surplus di creatività e di coraggio necessari per vivere il nostro tempo.

E’ significativo che questo centenario inizi a Palazzo Vecchio dove il 3 ottobre del 1951 fu decretata la cittadinanza onoraria di don Giulio Facibeni. Credo sia utile richiamarne il contesto storico: siamo nei primi mesi della prima giunta La Pira, formatasi a seguito di elezioni amministrative che avevano fortemente risentito della difficile situazione internazionale e della polarizzazione politica seguita alla campagna per le elezioni politiche del 1948.

È in questo contesto che don Facibeni diviene cittadino onorario di Firenze in forza del voto unanime del Consiglio comunale espresso per acclamazione. Nella persona ormai anziana di don Giulio tutta la città, al netto delle profonde divisioni e delle ferite ancora vive del recente passato fascista, riconosceva qualcosa che le apparteneva in maniera autentica e profonda. I fiorentini avevano capito che anche grazie a don Facibeni la solidarietà concreta e senza calcolo diventava cultura di un’intera città.

La Pira, nel cogliere il significato politico del conferimento della cittadinanza onoraria a don Facibeni, in occasione della cerimonia pubblica del 7 ottobre 1951, evidenziò tre elementi, che credo siano utili per poter riflettere sulla nostra vocazione di fiorentini oggi. Ne traggo altrettanti spunti di riflessione, cui ne aggiungerò una quarta a conclusione del mio intervento.
Per prima cosa il Sindaco si soffermava sul fatto che la cittadinanza onoraria era – nonostante la ritrosia di Facibeni – conseguenza della luminosità della sua vita, nel senso evangelico della luce che risplende davanti agli uomini (cf. Mt 5,16).

Si tratta di una lezione per la vita sia ecclesiale che civile di Firenze: la vita cristiana, infatti, brilla e si nutre della luce del Vangelo, non di quella dei riflettori mediatici, anzi l’azione pastorale e l’esercizio del potere non devono essere autocentrati ma, al contrario, capaci di sintonizzarsi e di imparare da quanto si muove di buono nella società senza occuparlo ideologicamente.

Il secondo elemento messo in luce da La Pira riguardava il fatto che la testimonianza di vita di don Giulio Facibeni forniva una “stella polare” per l’azione politica:

“La vita […] non ha altro scopo che essere un servizio a favore dei nostri fratelli. Questa l’unica norma che deve presiedere al governo della cosa pubblica, e l’unica norma che affratella e cimenta una città”1. Siamo davanti a un fatto molto semplice: in quanto uomini e donne apparteniamo ad un’unica famiglia umana. Si tratta di un’evidenza che in un passato ancora recente è stata drammaticamente negata da scienze piegate dalle ideologie razziste e che ancora oggi è troppe volte negata sul piano pratico. Eppure la fraternità universale fra tutti gli uomini e le donne della terra fonda, assieme alla democrazia, una delle più grandi conquiste di civiltà, cioè il diritto universale dei diritti umani. Se la coesione delle città, delle nazioni e della comunità internazionale non è costruita sul senso della comune appartenenza alla famiglia umana, fatalmente il consenso sarà ricercato nella contrapposizione e nelle ideologie che traggono la loro forza nella logica dell’amico/nemico.

Il terzo elemento su cui La Pira rifletteva riguardava le risorse economiche necessarie a promuovere una politica fondata sulla fraternità umana. In La Pira la fiducia nella Provvidenza – appresa dalla lezione di Don Facibeni – si coniugava con una scelta di politica economica tanto chiara quanto radicale.

Al momento dell’insediamento della giunta, il 5 luglio, aveva posto come primo punto del programma da realizzare: “risolvere i problemi più urgenti degli umili” e aveva aggiunto che per questo obiettivo sarebbe stato necessario “proporzionare i mezzi ai bisogni”. Con tale espressione La Pira non prefigurava bilanci irresponsabili o “creativi” ma intendeva tradurre il dettato degli articoli 2 e 3 della Costituzione. Come sappiamo La Pira dette prova di grande creatività, coraggio e capacità di lotta nel proporzionare le risorse ai bisogni di alloggi, lavoro, scuole, 1 Ugo De Siervo, Giovanni Giovannoni, Giorgio Giovannoni (a cura di), Giorgio La Pira Sindaco. Volume primo: 1951-1954, Cultura Nuova Editrice, Firenze 1988, 69.

Oggi ci troviamo davanti ad emergenze non meno difficili ed è triste constatare come in praticamente tutti i paesi del mondo solo le spese per il riarmo crescono a misura dei bisogni imposti dalla incapacità dei governi e della comunità internazionale di risolvere pacificamente, cioè nel rispetto del diritto internazionale e umanitario, le questioni internazionali e dagli interessi economici sottesi all’industria bellica. Tanto più triste quanto maggiori sono i bisogni essenziali per assicurare il diritto ad una vita dignitosa che vengono trascurati.

Ad esempio è chiarissima la consapevolezza che per fronteggiare una possibile nuova pandemia – oltre che per salvaguardare il diritto umano alla salute – sarebbe necessaria la costruzione di una rete di servizi sanitari efficienti e accessibili a tutti gli uomini e le donne della terra, il cui costo sarebbe nettamente inferiore a quello del riarmo.
C’è, infine, un’ultima considerazione che questo inizio di anno centenario dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa pone davanti in particolare alla Chiesa. L’Opera fu infatti lo strumento che Facibeni pensò per trasformare la parrocchia. Per questo, molto acutamente, don Milani nel momento in cui a don Facibeni fu chiesto di rinunciare alla guida della pieve di Santo Stefano in pane, lo indicò quale gloria dei parroci fiorentini e non degli orfanotrofi. In effetti, fin da giovanissimo pievano di Rifredi, don Facibeni aveva accompagnato la trasformazione del territorio che diventava sotto i suoi occhi il principale quartiere industriale di Firenze e aveva pensato ad una parrocchia missionaria a servizio dei nuovi abitanti, fossero contadini o operai e dei nuovi bisogni, come quelli drammatici generati dai lasciti delle due guerre mondiali.

Anche noi come chiesa siamo chiamati ad accompagnare trasformazioni così radicali che fatichiamo a volte a capire e accettare. Don Facibeni ci indica il cuore di quella trasformazione missionaria a cui papa Francesco chiama tutta la chiesa in tutte le sue comunità e strutture: Caritas Christi urget nos!

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