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Jobs Act: il contratto a “tempo indeterminato” dura tre anni. E poi?

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Uno studio, firmato Tortuga* e pubblicato sul sito lavoce.info, attenua il trionfalismo del Governo in merito alle riforme del lavoro e dimostra che il risultato principale della coppia Jobs act-decontribuzione è per il momento una massiccia virata sul tempo indeterminato, piuttosto che un boom di posti di lavoro.

Che costituisce senza dubbio un risultato positivo a condizione che il tempo indeterminato rimanga la forma contrattuale centrale nei prossimi anni; in questo caso le conseguenze favorevoli su occupazione, produttività e crescita potrebbero effettivamente arrivare. Il contratto a tempo indeterminato potrebbe favorire, per esempio, l’investimento nella formazione del lavoratore oltre che consentire una maggiore stabilità economica alle famiglie.

Lo studio sostiene in particolare che il rapporto a tempo indeterminato che vediamo crescere nelle statistiche non è più quello che vigeva in passato. Infatti, con le nuove tutele crescenti, il rischio è che, allo scadere dei tre anni di decontribuzione, quando il tempo indeterminato diventerà di nuovo costoso per i datori di lavoro, le aziende tornino ad assumere a tempo determinato, liberandosi dei contratti a tempo indeterminato prima che le tutele “crescano” troppo. Bisogna inoltre tenere a mente che, secondo i sostenitori del Jobs act, l’aumento delle assunzioni e delle cessazioni evidenziato dai dati Inps e Istat rappresenterebbe un passo verso un sistema in cui il lavoratore può essere assunto e licenziato più facilmente, sulla scorta di ammortizzatori sociali rinforzati e delle cosiddette politiche attive. Le misure in merito contenute nel Jobs act, anche secondo alcune analisi Ocse, potrebbero favorire un aumento dei livelli di produttività e di occupazione nel lungo periodo.

Per il momento lo studio prevede una nuova impennata dei contratti a tempo indeterminato nel mese di dicembre, l’ultimo mese utile per usufruire della decontribuzione piena. Di lì al 2018, con la progressiva uscita di scena degli incentivi sui nuovi assunti, capiremo se la nostra economia sta effettivamente scommettendo sul tempo indeterminato o se siamo di fronte a una bolla dovuta esclusivamente agli sgravi fiscali. La speranza del governo è che la ripresa si rinforzi nel frattempo, permettendo di consolidare i nuovi posti di lavoro e magari di mantenere conveniente dal punto di vista fiscale il lavoro a tempo indeterminato. L’aumento dei nuovi contratti a tempo indeterminato è quindi un buon segno ma, più che cedere ai trionfalismi, bisognerebbe tenere alta la guardia: la scommessa sulla ripresa dell’economia e del lavoro stabile deve ancora essere vinta.

Le turbolenze dei mercati finanziari che negli ultimi giorni hanno fatto temere un ritorno al 2008, le previsioni di crescita di un punto e mezzo di pil per il 2016 – che appaiono fin d’ora difficili da raggiungere – non promettono però niente di buono.

Nota: * Tortuga è un gruppo di studenti di economia della Bocconi, LSE e UPF


Ezzelino da Montepulico


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