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Mafia: è morto il boss Bernardo Provenzano. L’Associazione vittime dei Georgofili: «Renderà conto a Dio dei suoi crimini»

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MILANO – E’ morto il boss Bernardo Provenzano. Ottantatré anni, malato da tempo, indicato come il capo di Cosa nostra, venne arrestato dopo una latitanza di 43 anni l”11 aprile del 2006 in una masseria di Corleone, a poca distanza dall”abitazione dei suoi familiari. Il capomafia era detenuto al regime di 41 bis nell”ospedale San Paolo di Milano. Tutti i processi in cui era ancora imputato, tra cui quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, erano stati sospesi perché il boss, sottoposto a più perizie mediche, era stato ritenuto incapace di partecipare. Grave stato di decadimento cognitivo, lunghi periodi di sonno, rare parole di senso compiuto, eloquio assolutamente incomprensibile, quadro neurologico in progressivo, anche se lento, peggioramento: e’ l’ultima diagnosi che i medicide ll”ospedale hanno depositato. Nelle loro conclusioni i medici dichiaravano il paziente “incompatibile con il regime carcerario”, aggiungendo che “l”assistenza che gli serve e ”garantita solo in una struttura sanitaria di lungodegenza”. Da anni l’avvocato del boss, Rosalba Di Gregorio, aveva chiesto, senza successo, la revoca del regime carcerario duro e la sospensione dell”esecuzione della pena per il suo assistito, in virtù delle sue condizioni di salute. A Firenze, Giovanna Maggiani Chelli, presidente Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, del maggio 1993, afferma: “Ora renderà conto a Dio delle sue azioni e dei suoi crimini”.

Ma chi è stato Bernardo Provenzano? Agli uomini che dopo un’indagine lunga e metodica lo stanarono in una masseria di Montagna dei cavalli, nelle campagne di Corleone, la mattina dell”11 aprile 2006 si presentò un uomo minuto e dimesso. Il fantasma di Bernardo Provenzano si materializzava dopo 43 anni di latitanza. E subito colpì il contrasto tra il mito di un boss astuto e sanguinario, che da tempo lo inseguiva, e la vita spartana di una persona all”antica che apprezzava ricotta e cicoria.Lo circondava la fama del capo inafferrabile che aveva erettoattorno a sé una barriera invalicabile. Sospettava di tutto e di tutti. Raccomandava agli amici di parlare a bassa voce e di controllare la presenza di “cimici” e telecamere nascoste. Mandava i suoi ordini con i celebri “pizzini” codificati e vergati, in una lingua approssimativa ma molto espressiva, conl”inseparabile macchina per scrivere. In quei foglietti era rappresentato tutto il mondo di Provenzano, quello che il pentito Angelo Siino ha descritto come un “sistema” di imprese, appalti, affari, soldi riciclati nei canali dell”economia legale. E sullo sfondo una rete di relazioni e mediazioni con la politica. Il vero ruolo di Provenzano era stato già ricostruito da decine di collaboratori ma molti tratti della sua carriera criminale sono rimasti sempre in ombra. Il fatto è che era arrivato ai vertici della holding mafiosa imponendosi nelle file della cosca di Corleone e crescendo con l”amico d”infanzia Totò Riina all”ombra di Luciano Liggio.

Per la determinazione con cui si muoveva si era guadagnato l”appellativo di “Binnu u tratturi”. Sparava, secondo Liggio, “come un Dio” pur avendo un “cervello di gallina”. Per questo veniva utilizzato soprattutto per le operazioni più sanguinose. Da questa strada era arrivato in alto nel sistema di comando di Cosa nostra. Al fianco di Riina, da tutti consacrato come “capo dei capi”, gli era toccata la parte del secondo. E nella stagione delle stragi quella di comprimario. All”esterno la sua lealtà cementava l”immagine di compattezza di Cosa nostra. “Riina e Provenzano sono la stessa cosa” si diceva. In realtà esprimevano due diverse visioni del governo mafioso: irruento e sbrigativo Riina, accorto e riflessivo Provenzano. Quest”anima “moderata” poté emergere solo dopo l”arresto di don Totò, il 15 gennaio 1993. Era il colpo più duro per la mafia giunto al culmine di una controffensiva dello Stato innescata dalle inchieste di Falcone e Borsellino e consolidata dalle condanne del maxiprocesso. La mafia aveva reagito scatenando l”offensiva stragista del 1992-93. Culminata anche nella strage fiorentina dei Georgofili. Ma, come diceva Riina, “faceva la guerra per potere fare la pace”. Toccò a Provenzano gestire questa fase dello scontro. E fu lui a correggere l”originaria strategia del terrore. Indossò i panni del “traghettatore”, fermò gli attacchi, fece tacere le armi. La tecnica della “sommersione” serviva a cogliere due obiettivi: consentire alla mafia di tornare ai suoi affari tradizionali e aprire una “trattativa” con lo Stato anche a costo di “consegnare” Riina, come lo stesso boss era propenso a sospettare durante le sue confidenze in carcere intercettate. Le inchieste hanno messo a fuoco questa rete di interessi, che spaziano dalle opere pubbliche alla sanità, e si sono concluse con numerose condanne. Il sistema di relazioni del boss è da tempo messo a fuoco in varie indagini ancora aperte. Un filone è quello che ipotizza “coperture” anche negli apparati investigativi. E il generale del Ros Mario Mori è finito sotto processo, ma poi assolto con il suo braccio destro Giuseppe De Donno, con l’accusa di avere protetto la latitanza di Provenzano. Negli ambienti giudiziari si dice che la sua uscita di scena consegna ora il testimone della continuità a Matteo Messina Denaro, con il quale scambiavamessaggi e “pizzini”.

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