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Fuga dalle urne e fuga dal Paese

Pochi mesi fa alle elezioni politiche si è consumata la fuga dai partiti, ieri e oggi gli italiani chiamati a rinnovare le proprie amministrazioni locali hanno messo in atto la fuga dalle urne. Se la tendenza non verrà invertita, il rischio è che nei prossimi mesi si consumi una vera e propria fuga dal Paese. Non solo intesa come partenza per Nazioni che potenzialmente offrono maggiori opportunità, ma soprattutto una fuga dal Paese civile, dalla volontà di convivenza reciproca. Da quel comune sentire che fa allontanare una fetta della popolazione dalla “vita normale” e la trasforma in autore di atti di rabbia, di rivalsa, fini a se stessi, certo, ma propri di chi non ha più speranza. Di chi è figlio di una situazione economica e sociale ormai insostenibile.

L’esito elettorale, dunque, è solo l’ultimo drammatico appello di elettori ormai alla ricerca di crescita e sviluppo come solo lo possono essere di acqua gli uomini assetati nel deserto. Ma a parte il grande partito degli astensionisti c’è qualche altro vincitore politico di questa tornata elettorale? Ancora è presto per dare giudizi definitivi, visto che lo spoglio è in corso e che fra 15 giorni il ballottaggio avrà la sua importanza in molte grandi città del Paese, ma la sensazione è che in giro ci siano solo macerie.

Non ha certamente vinto il Pd che per la prima volta nella storia va al ballottaggio nella sua città simbolo, Siena, e che – dopo una campagna piena di veleni – manda al ballottaggio un Ignazio Marino che non è riuscito a imporre quel cambio di passo che tanti si aspettavano. Come non bastasse, i democratici risultano ancora non del tutto in sintonia con il Sud, mezza Nazione. Non è poco per un partito che esprime il presidente del consiglio.

Non ha certamente vinto neanche il Pdl che – ed è la prima volta in 20 anni – si disconnette dal ceto medio produttivo del Nord Est, manda a un difficile ballottaggio il sindaco uscente della Capitale e non guadagna neanche nelle zone (come la Toscana) dove può giocare la carta dell’alternativa.

Non ha certamente vinto Beppe Grillo. A cazzotto perde la metà dei voti rispetto a soli tre mesi fa. Eppure, aver tenuto la barra della non alleanza con il Pd (che poi avrebbe significato la scissione se non la morte del movimento) avrebbe dovuto garantirgli una buona rendita di posizione. Ma così non è stato, un po’ perché i 5 Stelle stanno facendo vedere al Paese che dietro ai comizi on line e agli strilli si cela il vuoto pneumatico e un po’ perché gli elettori trovano sempre una risposta (questa volta nell’astensione) più radicale rispetto a chi – essendo entrato nei Palazzi del potere – per forza di cose così radicale non può più essere.

Un’ultima nota va fatta anche sul governo Letta. L’accordo Pd-Pdl è stato mal digerito dalla base democrat e vissuto come una mezza vittoria dal centrodestra, ma di fatto tutti sono in attesa che combini davvero qualcosa (a parte il rinvio dell’Imu) su lavoro, crescita e sviluppo. Il rischio è che, nonostante l’ampia maggioranza parlamentare, non trovi la forza politica di incidere davvero sulle questioni che potrebbero far ripartire il Paese. Un rischio tutt’altro che remoto, viste come stanno scivolando via le prime settimane.

Letta non è mai stato un politico capace di gettare il cuore oltre l’ostacolo, anzi è sempre stato grande calcolatore pur con punte di coraggio. In questa situazione potrebbe servirgli qualcosa in più per riuscire a scuotere Pd e Pdl e per convincere gli elettori, o meglio il Paese, che il suo governo non è solo la brutta copia politica di un già brutto esecutivo Monti. Oltre ai tagli della politica, alle nomine e alla riforma elettorale c’è di più. Gli elettori lo sanno bene e lo gridano ogni volta che ne hanno la possibilità, se qualcuno a Roma si destasse dal torpore anche la nostra classe dirigente politica se ne accorgerebbe. Tardi, ma in tempo per evitare una nuova fuga dal Paese.

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