Segreteria Pd: minaccia il ritorno alle urne, magari election day con l’Emilia Romagna
ROMA – Ora quello che più preoccupa ministri e big del Pd è che si inneschi una frattura tra Conte e Di Maio: con conseguenze ingestibili per il governo, che «non può essere un campo di battaglia quotidiana», scuote la testa Nicola Zingaretti nel chiuso di una riunione della segreteria.
Dove si decide che non si può più continuare a ingoiare fiele da Renzi e dai grillini spappolati, con il percorso della manovra trasformato in un calvario e Salvini sugli scudi. Già prima del voto era questa la preoccupazione di chi aveva messo in conto la débâcle. «Se si arriverà ad una rottura, sarà per la prevedibile spaccatura dei 5 Stelle. Se scendono al 7%, esploderà il dibattito tra chi dirà «stando col Pd ci roviniamo» e chi frenerà, «ma se si vota ci suicidiamo». Una dinamica puntualmente andata in scena: e che porterà ad una divisione dei grillini, con il rischio concreto di un precipitare alle urne.
Per questo i Dem giocano d’anticipo minacciando il voto. Non è Renzi il pericolo principale, perché «lui vuole arrivare alle elezioni del capo dello Stato nel 2023 con 50 deputati, «quando mai li rielegge con il taglio parlamentari?». L’ex leader è bersaglio degli strali, se si è perso così è stato anche grazie alle sue continue polemiche. E quindi anche lui deve stare più accorto: il voto con il Rosatellum lo metterebbe all’angolo, «da solo non vincerebbe un collegio maggioritario e sarebbe costretto ad unirsi a noi per non rosicchiare pochi seggi nella quota proporzionale», spiega un esponente di governo. Eccola la strategia dei Dem, che lambisce pure Di Maio, candidato a farsi del male se si andasse al voto anticipato. Zingaretti lo irride, «vuole correre da solo con l’8%? Auguri!»
Zingaretti lancia un avvertimento: «L’alleanza ha senso con una visione comune delle forze che ne fanno parte, altrimenti sarà meglio trarne le conseguenze».
«Se si va avanti così sarà inevitabile porsi il tema di staccare la spina. Tirando a campare il populismo si amplifica», sentenzia Andrea Orlando, il vicesegretario. Se non bastassero le parole pubbliche (aspre come quelle di Luigi Zanda: «Di Maio impari l’italiano, se vuole la crisi lo dica»), per capire a che punto sia scoppiata la prima crisi del governo giallo-rosso, bisogna sentire cosa dicono in privato i dirigenti del Pd.
Infuriati con Renzi e Di Maio per i loro atteggiamenti che hanno indebolito la coalizione. Andare alle urne farebbe male più a loro, dicono nel Pd. Partito che ha tenuto botta in Umbria, malgrado la scissione di Italia Viva. «Come abbiamo tenuto in Umbria, noi terremo in tutta Italia». La rovinosa perdita di una (ex) regione rossa dimostra però che l’alleanza stenta a diventare strutturale. E che lo sforzo di dargli una prospettiva va consolidato prima delle tornate in Emilia e Calabria. Malgrado quanto dice Di Maio. Il quale fa infuriare lo stato maggiore Pd, perché quando esclude nuove alleanze ma ammette solo quella di governo, non considera il Pd alleato, ma avversario. «Perché stai insieme allora, per fare le nomine? Se non hai una visione in prospettiva, diventa un esecutivo che gestisce il potere». Questi gli sfoghi di dirigenti in verità molto preoccupati.
Il premier parla con Di Maio e Zingaretti, rinviando tutto ad un chiarimento nel governo che potrebbe esserci oggi. «Vediamoci e facciamo il punto. E sul fatto che il governo debba fare le cose senza polemiche sono d’accordo», assicura al leader Pd. È la conferma di un asse privilegiato con il Pd. Che per la prima volta mette in discussione il governo. Magari puntando a ridurre i danni, come dice uno dei big, accorpando se si andasse alle urne il voto in Emilia e Calabria in un election day con le politiche. Spostando più in avanti la data del 26 gennaio. Una tornata unica «per polarizzare lo scontro con Salvini».