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Pensione anticipata: ora è più difficile. E si tratta sul turnover nella PA

Arriva la doccia fredda per chi sognava la pensione anticipata. Motivo? Il governo tiene al contenimento di una delle voci di spesa più imponente: quella per la previdenza. Se aumenta di un poco la rivalutazione per gli assegni medi, si riducono, dall’altro lato, gli scivoli per i nuovi pensionandi, con un aumento dei requisiti per Ape social e Opzione donna, che comunque rimangono anche nel 2024, così come per Quota 104, che vede anche una riduzione dell’assegno nella parte retributiva.

Anche chi è tutto nel contributivo non potrà andare facilmente in pensione anticipata, visto che per uscire a 64 anni servirà avere maturato almeno 3,3 volte l’assegno sociale (anziché le attuali 2,8 volte). In più chi punta alla pensione anticipata per aver superato i 42 anni e 10 mesi (41 e 10 mesi per le donne) dovrà fare i conti con l’adeguamento all’aspettativa di vita che ripartirà già dal 2025, anziché dal 2027. Vedendo allontanarsi il momento dell’uscita.

Si tratta di fatto di una “super-Fornero”, altro che superamento, vanno all’attacco le opposizioni, che puntano il dito anche contro la scelta di aumentare l’Iva sui prodotti per la prima infanzia e per la cosiddetta tampon tax (una battaglia a suo tempo bipartisan).

In ogni caso, prende forma, a dieci giorni dal varo in Consiglio dei ministri, la seconda manovra targata Meloni-Giorgetti. Che riserva più di una sorpresa: da svariate nuove tasse all’obbligo per le imprese di assicurarsi contro le calamità, passando per il mini-tesoretto per il Parlamento da 200 milioni (e in due anni) fino al contributo alla spending review che supererà il mezzo miliardo l’anno anche per gli enti locali.

E tanto è importante mostrarsi virtuosi nel contenimento delle spese, anche in vista delle pagelle delle agenzie di rating, che rispunta, ma è ancora tutto da vedere, anche il blocco del turnover per la pubblica amministrazione.

Per ora è solo una voce non ancora declinata nella prima bozza circolata di un testo che, assicura il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani, arriverà in Senato “tra giovedì e venerdì”. C’è ancora tempo, insomma, per trattare.

Un braccio di ferro sotterraneo anche perché anche alla Pa, raccontano alcuni parlamentari, avrebbero saputo dell’idea solo dalle bozze. Si parla di una percentuale minima, del 10%, e salvaguardando le strutture impegnate nel Pnrr.

Ma in Transatlantico c’è anche chi fa previsioni draconiane, di un blocco tra il 25 e il 35%, che tanto ricorda i tempi dell’austerity dopo la grande crisi del 2008. Al momento non ci sarebbe affatto una intesa sul punto e si starebbero ancora facendo i calcoli per valutare l’impatto anche in termini di risparmi.

Di certo il ministro della Pa, Paolo Zangrillo, in questi mesi non ha fatto che sottolineare la necessità di svecchiare il pubblico impiego e attrarre competenze (anche con la campagna sul “posto figo”). Se è ancora aperta la partita della Pa – che comunque incassa risorse per i rinnovi dei contratti – definiti sono invece i tagli per gli enti locali, con le Regioni che dovranno ridurre le spese per 350 milioni l’anno (fatte salve le voci i diritti sociali e la salute) i sindaci dovranno sforbiciare 200 milioni e le Province 50.

In più ci sono i tagli ai ministeri (in tutto la spending dovrebbe arrivare a 10 miliardi in tre anni) e Nemmeno il taglio del cuneo convince le minoranze: troppo “timida” la maggioranza che si limita a prorogare per un altro anno la riduzione di 6 punti fino a 35mila euro e 7 per chi sta entro i 25mila euro. Un intervento comunque rafforzato, anche se per poche decine di euro, dall’incrocio con l’accorpamento delle prime due aliquote Irpef. Anche questo, per ora, per il solo 2024.



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