Articolo 18: abolirlo significa scaricare le crisi aziendali sui lavoratori da rottamare
L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro, recita la Costituzione. Ma i costituzionalisti si domandarono se il principio doveva applicarsi solo in un paese ad occupazione crescente oppure se, viceversa, servisse a ricordare che senza il lavoro non c’è democrazia e quindi libertà? La riflessione è d’obbligo in un momento in cui la cosiddetta parte progressista del Paese vota una riforma del lavoro ( in maniera anglofona denominata jobs act) che palesemente è diretta ad indebolire le tutele dei lavoratori. Già l’opera era iniziata con la riforma Fornero, che dopo avere introdotto termini assai restrittivi per l’impugnazione in giudizio dei licenziamenti aveva messo mano alla revisione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori assegnando al giudice un margine di discrezionalità anche in caso di licenziamenti disciplinari e limitando il reintegro, nei licenziamenti economici, solo ai casi in cui esso fosse manifestatamente infondato.
La novità della norma, secondo la riforma votata dal parlamentino del PD, sul punto dei licenziamenti economici, esclude questa opzione: se il licenziamento economico è manifestatamente infondato e nasconde solo la decisione di espellere il lavoratore dal ciclo produttivo, la conseguenza sarebbe, a riforma approvata, solo l’indennizzo già indicato nella misura dalla legge. A ben vedere tale opportunità per le imprese diventa un vero favor in senso opposto a quello del lavoratore. Ciò vuol dire che la semplice motivazione della difficoltà economica dell’impresa, vera o presunta che sia, sarà fatta pagare al lavoratore. Anzi rischia di diventare il modo per svecchiare quel personale che rappresenta un pesante costo aziendale a vantaggio, si fa per dire, di neo assunti con forme contrattuali addirittura acausali e sicuramente più a buon mercato. Ma i lavoratori over 50 ancora lontani dalla pensione dove potrebbero essere ricollocati? A scuola……di formazione, forse, con sussidi si, ma di povertà, emarginati e definitivamente esclusi dal ciclo produttivo e ben presto dal contesto sociale. Certo potranno sempre andare all’estero per dare il cambio ai “ giovani cervelli” precedentemente in fuga, che così finalmente torneranno in patria. In altri termini si vorrebbe sottrarre al lavoratore anche l’ultima possibilità di contestare il licenziamento, asseritamente giustificato dai motivi economici: il giudizio del tribunale comunque e sempre in nome del popolo italiano. La possibilità di reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro, secondo la modifica dell’art. 18 resterebbe pertanto solo per i licenziamenti discriminatori ed in quelli disciplinari essendo eliminata la reintegra in caso di licenziamento economico manifestatamente infondato, a sanzione del quale resterebbe solo un indennizzo.
Tuttavia la sanzione, in caso di licenziamento illegittimo, non parrebbe proprio adeguata al danno, enorme, patito dal lavoratore, sopratutto quando il momento della pensione è ancora lontano. Ma allora se il licenziamento è illegittimo, cioè non doveva essere comminato al lavoratore perchè non reintegrarlo nel posto di lavoro? I licenziamenti intimati correttamente non sono in discussione, in verità non lo sono mai stati neppure con il vecchio articolo 18. Ma l’idea che il capitale sia sempre più forte rispetto alla forza lavoro, come nella riforma del Jobs act, pare più che un concetto progressista una roba vecchia, sicuramente degna di rottamazione…… Ancora una volta potrebbe essere persa una grande occasione: invece di tagliare i costi del lavoro, unico vero motivo che condiziona le imprese ad assumere personale, la decisione scelta è di tagliare il numero dei lavoratori e, se il licenziamento è sbagliato, pazienza: c’è solo una multa.