Jobs act: il Senato approva (165 sì, 111 no) dopo una giornata di guerriglia e forti tensioni
ROMA – Dopo una lunga e aspra giornata il voto di fiducia al Senato ha dato ragione al Governo: 165 sì e 111 no, 2 astenuti. Intorno alle 1 di stanotte, 9 ottobre, dopo aver subìto di tutto, anche il lancio di un libro che solo per poco non lo ha preso, il presidente, Pietro Grasso, ha chiuso i lavori. Segnalando la fiducia più alta dal discorso programmatico di Renzi . Ma c’è da temere che, presto, scatterà la resa dei conti del gruppo Pd, che ha votato la fiducia solo per senso di responsabilità (per non far cadere quello che, bene o male, è il suo Governo) più che per disciplina di partito. I nodi verranno al pettine, e le conseguenze politiche potremmo constatarle solo nei prossimi giorni. Senza dimenticare che anche la piazza, gli operai e i sindacati contrari al provvedimento faranno sicuramente sentire la loro voce con manifestazioni e occupazioni di fabbriche, come ha promesso il leader della Fiom, Landini.
GUERRIGLIA – Se quello che è avvenuto al Senato – in occasione della seduta di discussione del Jobs Act , per il quale il Governo ha posto la fiducia – mostra il livello al quale i nostri parlamentari sono giunti (in basso) è un bene non solo che si modifichino, ma che si riducano drasticamente i numeri di Senato e Camera. Forse con meno galli e polli il pollaio sarà meno rissoso. A Palazzo Madama è andato in scena uno spettacolo indecoroso. Urla, cartelli, qualche spintone e monetine gettate sui banchi del governo in mattinata. In serata va anche peggio con un lancio di fogli e libri, tra cui il regolamento dell’Aula, contro il presidente del Senato Pietro Grasso. Una senatrice, nella bagarre, è stata colpita, forse involontariamente, da un collega. La protesta è dilagata anche nelle piazze e nelle fabbriche: cortei e manifestazioni di protesta contro il governo in tutt’Italia. In Toscana gli operai hanno manifestato a Firenze, Livorno, Piombino, Empoli, Pontedera e praticamente dappertutto. La soppressione dell’essenza dell’articolo 18, che permette di ricorrere al giudice in caso di licenziamento illegittimo, non è accettata da una classe operaia che si ritiene vessata e calpestata. E ora pronta a reagire.
MONETINE – Il discorso iniziato dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti è proceduto fin dall’inizio a singhiozzi, a causa delle grida di protesta del Movimento 5 Stelle. Sul contratto a tutele crescenti per i neoassunti, uno dei punti controversi, il ministro ha annunciato: «Il governo intende modificare il regime del reintegro così come previsto dall’articolo 18, eliminandolo per i licenziamenti economici e sostituendolo con un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità». Pertanto, la possibilità di reintegro dopo un licenziamento ci sarà solo per quelli discriminatori o per violazioni gravi sui disciplinari.
Dopo numerose interruzioni, il presidente Grasso sospende la seduta in Aula ed espelle il senatore Vito Petrocelli, che, per polemica, aveva agitato un foglio bianco (simbolo – par di capire – della delega in bianco che il governo intende farsi dare dalla camera alta con un voto di fiducia che sa parecchio di colpo di mano). Poi, invitato a uscire, fa l’«elemosina» a Poletti, consegnandogli 50 centesimi. Ma il capogruppo pentastellato non si arrende: «Non uscirò dall’Aula a meno che non mi portino via con la forza o finché il presidente Grasso non revocherà un provvedimento assurdo».
SEDUTA – Nel pomeriggio seduta sospesa, ripresa, rinviata sempre a causa delle intemperanze e dell’ostruzionismo dei pentastellati. Si arriva anche a gesti estremi e si vede chiaramente il presidente Grasso sfiorato dal lancio dall’emiciclo di un fascicolo di emendamenti, prontamente afferrato al volo da un assistente d’Aula dietro di lui. Alla fine si decide che il voto, previsto inizialmente per il tardo pomeriggio, slitti alle 19, poi alle 21, poi alle 23.
RENZI – Renzi segue da Milano gli eventi pomeridiani, ma non si lascia scoraggiare: «Al Senato porteremo a casa il risultato oggi, nelle prossime settimane e nei prossimi mesi: non molliamo di un centimetro e con tenacia raggiungeremo l’obiettivo».E sfida i grillini: «Ci contestino, ma il Paese lo cambiamo. Cambiandolo facciamo l’unica cosa che veramente serve: restituire posti di lavoro».
OPPOSIZIONE PD – La questione politica è rappresentata non dall’opposizione dei 5 stelle, ma soprattutto dalle difficoltà frapposte al Governo dalla minoranza Pd. 35 esponenti del partito non si arrendono e presentano un loro documento concernente il Jobs act. Il senatore democrat Miguel Gotor (fedelissimo di Bersani) spiega che è firmato da 26 senatori e 9 deputati, membri della Direzione Pd. E Maria Cecilia Guerra presentando il documento afferma: «Voteremo la fiducia al Governo» ma il «ricorso alla fiducia interrompe il dibattito parlamentare e rappresenta le difficoltà del governo nel permettere un confronto in Parlamento della maggioranza».
PAESE – Mentre a Roma si offriva questo bello spettacolo, nel Paese montava la protesta di sindacati e operai contro alcuni contenuti del provvedimento in discussione al Senato. Ha cominciato la Fiom, con il suo Segretario Maurizio Landini che, nel corso di una manifestazione organizzata a Milano, ha affermato che gli operai occuperanno le fabbriche. Ma intanto la base si era già mossa per suo conto. Assemblee e occupazioni ci sono state soprattutto in Toscana, a Firenze, Empoli, Lucca, Prato, Siena, Piombino, Livorno e Pontedera. Manifestazioni anche a Reggio Emilia, la città di Delrio, mentre in Liguria la Cgil ha proclamato uno sciopero per il 15 ottobre. Temo proprio che per Renzi e per l’Italia si prospetti un autunno caldo.