La Banca di Cina vuole il Monte dei Paschi. Sbarcano imprenditori stranieri. Confindustria guarda
Il signor Issad Rebrad, algerino settantenne, uno degli uomini più ricchi del mondo, patron di Cevital, è persona a modo, molto apprezzata dai suoi dipendenti, ma non ha comprato le acciaierie di Piombino per beneficenza. Ha visto il business e investirà 400 milioni di euro. E vede evidentemente la possibilità di ottenere profitto Eduardo Eurnekian, armeno-argentino, altro signore fra i più ricchi del pianeta, maggiore azionista di una società che gestisce 54 aeroporti in tutto il mondo, che ha voluto sbarcare in Toscana per investire 410 milioni di euro negli scali di Firenze e Pisa. Ancora: i giapponesi di Hitachi e i cinesi di Insigma si stanno contendendo la pistoiese Ansaldo Breda messa in vendita da Finmeccanica. E proprio mentre scrivo queste righe mi arriva all’orecchio una notizia capace di scuotere anche chi non è senese: Bank of China si sta interessando all’acquisto del Monte dei Paschi. Lo stemma di Pechino in Rocca Salimbeni. Una bestemmia? No, un segno di tempi che cambiano. Tempi in cui i nuovi signori sono gruppi e capitalisti stranieri che trovano la Toscana fortemente attrattiva: non (o non solo) per ammirare il patrimonio d’arte e cultura, ma per guadagnare.
La notizia del possibilissimo sbarco dei banchieri cinesi al Monte filtra da ambienti finanziari ed è considerata affidabile. Perché, si dice, la banca senese non avrebbe molte alternative per uscire dal tunnel in cui è stata ficcata. Scandalizzarsi? In un altro articolo scrissi che, ora, la cosa più importante è salvare i posti di lavoro e i conti correnti. I cinesi hanno potenzialità economiche immense. L’augurio è che siano rispettosi di una città e di una tradizione. Così come si stanno presentando con le migliori intenzioni, e finanziamenti pesanti, i nuovi signori dell’acciaio, degli aeroporti, della fabbrica di treni: arrivati in una prateria abbandonata dai capitalisti nostrani, preoccupati da problemi come l’articolo 18 e il costo del lavoro. Che invece non sembrano minimamente scuotere chi arriva da lontano e vede nella Toscana una terra promessa. Una terra che offre un grande surplus di capacità produttiva, come ha pienamente sperimentato chi, per esempio, ha rilevato con successo fabbriche storiche come il Nuovo Pignone o ha deciso di prendersi i grandi marchi della moda. Ma anche, ed eccoci al punto, una Toscana in deficit di offerta imprenditoriale.
I pratesi, bravissimi a trasformare i cenci in tessuti pregiati, hanno deciso di vivere di rendita affittando i capannoni. Non importa a chi e per fare cosa. E anche le altre dinastie imprenditoriali nostrane si sono fatte più in là. Per mancanza di soldi? No, a quanto risulta dalle banche hanno scelto d’impiegare i capitali nella rendita invece che negli investimenti produttivi. E allora ecco che al loro posto si fa largo la nuova schiera dominante: i signori stranieri pronti a scommettere centinaia di milioni sulla Toscana e, soprattutto, sui toscani. Che non svendono il loro lavoro. E sanno che cos’è la produzione di qualità.
massimo
quando una comunità , si lascia scippare tutto ciò che rappresentava il fiore all’occhiello dell’ economia nazionale per colpa dei propri connazionali intrallazzoni , incapaci ,e mariuoli , ben vengano gli stranieri
a fare i padroni , male che vada smantellano , chiudono e se ne vanno……
proprio come fanno i cosidetti imprenditori nazionali.