Cuba Libre: Obama, gli esuli di Miami, zio Hernie e il ricordo di Teofilo Stevenson
«Se busca vivo o (preferentemente) muerto», c’era scritto sotto la foto di Fidel Castro stampata sulle maglie dei frequentatori, soprattutto camionisti, che affollavano il ristorante di un albergo dell’interno della Florida, dove mi ero rifugiato. Era il 24 agosto 1992. Su Miami stava per scatenare la sua furia Andrew, il secondo uragano più distruttivo della storia degli Stati Uniti. A bordo di uno sgangherato taxi ero arrivato fin lì, per evitare di finire in un centro di raccolta per stranieri. Le mura erano solide. Resisterono. Mentre gli alberi venivano sradicati e le automobili volavano come palloncini. Buona la birra e buona la bistecca. Gustate in mezzo a un vocìo di gente che parlava spagnolo: quasi tutti esuli cubani. Ossia camionisti non troppo impressionati da Andrew, quanto accalorati nelle loro discussioni. Ce l’avevano con Fidel, ovvio, ma soprattutto con l’America allora guidata da George Bush padre, che non li ascoltava e non faceva più nulla di visibile dai tempi dell’embargo economico-finanziario seguito al fallito sbarco nella Baia dei Porci e alla crisi dei missili che, nel ‘62, portò a un passo dallo scontro nucleare gli Usa di John Kennedy e l’Urss di Nikita Kruscev.
HEMINGWAY – Parlai con i camionisti, mentre aspettavo Andrew, e mi tornarono in mente le (poche) conoscenze cubane. A cominciare da «Il vecchio e il mare», trovato in casa quando avevo 10 anni. Ma Ernest Hemingway mi aveva esaltato già qualche anno addietro con «Addio alle armi». Vidi il film, poi divorai il libro. E prima dei vent’anni mi ero scaldato per un altro Ernesto: Che Guevara. Portavo la sua faccia stampata sulla t-shirt. Cominciai invece a riflettere sulla realtà cubana quando già facevo il giornalista a «Stadio», allora quotidiano sportivo del gruppo de La Nazione, e m’imbattei, durante le Olimpiadi di Montreal del 1976, in un atleta eccezionale: Teofilo Stevenson. Ossia uno dei più grandi pugili della storia dei Giochi: fisico statuario, potenza devastante, correttezza esemplare. Morto d’infarto a 60 anni, nel 2012, Stevenson non passò mai professionista, rifiutando un contratto stellare (cinque milioni di dollari) per affrontare Mohammad Alì (Cassius Clay): un po’ perché la legge cubana non prevedeva lo sport professionistico e un po’ per scelta personale. Ai giornalisti americani, scandalizzati per il gran rifiuto, chiedeva: «Cosa valgono cinque milioni di dollari, quando ho l’amore di otto milioni di cubani?».
FIDEL – Ecco il punto: non voleva scappare, non voleva tradire. Preferiva la vita spartana e i magri guadagni della Isla Grande alle luci del Madison Square Garden, alla ricchezza e alla gloria che gli avrebbe portato la sfida con Alì. Pensai a quanto fosse ingiusta la rinuncia del grande Teofilo. Vero che un ideale non si discute, ma altrettanto vero è che un popolo allegro e cordiale come quello cubano doveva patire una sorta d’esclusione per il gusto di un comunismo in salsa caraibica. Non era stato probabilmente sbagliato, nel 1959, aiutare la rivoluzione dei barbudos, con Fidel e il Che, per far saltare il regime corrotto di Fulgencio Batista. Ma gli Stati Uniti non avevano messo in conto che il «Lìder maximo», nel 1961, avrebbe scelto l’alleanza con l’Unione Sovietica. Tagliando i ponti con l’Occidente e subendo l’ostracismo americano.
BERGOGLIO – Mentre la televisione avvertiva dell’avvicinarsi di Andrew, i camionisti cubani esuli teorizzavano di nuove sommosse e nuovi, improbabili, sbarchi. Li salutai due giorni dopo, quando si contavano i danni dell’uragano e gioivo per averla scampata bella. Ma la strana avventura di 22 anni fa in Florida mi aiuta a capire, oggi, quanto sia fondamentale la caduta dell’ultimo muro. Quanto sia utile, per gli Stati Uniti e per Cuba, l’apertura di Obama. Quanto sia stata straordinaria l’azione di Papa Francesco. E comprendo quanto coraggio abbia avuto Raul Castro ad aprire al nemico storico, l’America, e a dare un primo ma decisivo giro di vite a 55 anni di castrismo. Il vecchio Fidel rischierà un colpo al cuore. Ma i camionisti che sfoggiavano la scritta «se busca…» dovranno, forse senza entusiasmo, cambiare maglietta.