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Monsignr Angiolo Livi

La morte di monsignor Livi, mito di San Lorenzo: ha aspettato invano la promessa di Renzi per Sant’Orsola

Monsignor Angiolo Livi durante l'intervista con Sandro Bennucci, direttore di FirenzePost
Monsignor Angiolo Livi, quando festeggiò i suoi 100 anni, durante l’intervista con Sandro Bennucci, direttore di FirenzePost

«Per questo decennio, la Chiesa ha scelto un tema: educare. Nel caso nostro bisogna insegnare a chi arriva a diventare fiorentino. Io posso dare un contributo: sono nato il 31 marzo di 97 anni fa in via Palazzuolo; andavo a catechismo da don Brioscia; a scuola da i’ Nappa…».

Cominciava così, il 7 giugno del 2011, sembra ieri, l’intervista che feci a monsignor Angiolo Livi per La Nazione nei giorni più vivaci della polemica sui banchi di piazza San Lorenzo. Don Livi era un grande. E in questo momento di dolore, anche personale per la sua scomparsa, bisogna ringraziare Dio per averlo lasciato con noi tanto tempo, esattamente 100 anni e nove mesi: per guidare, consigliare, insegnare. E aspettare un miracolo: non del Cielo ma di Matteo Renzi. Che non è arrivato in tempo. Quale? Seguitemi e saprete. Anche lui, don Livi, ringraziava il Signore per averlo … condannato a vita. E per non averlo mandato in pensione. Infatti, nonostante l’età e le regole, è stato prete attivo, parroco, fino all’ultima ora dell’ultimo giorno della sua esistenza terrena. ­­­Eppure aveva dato le dimissioni prima degli 80 anni: ma l’allora arcivescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, le chiuse in un cassetto e le … dimenticò. Così lui rimase al suo posto. E quando Papa Ratzinger si dimise, monsignor Livi non rimase molto convinto: mi confidò che, secondo lui, chi indossa la tonaca non dovrebbe mai ritirarsi finchè ha fiato ed è in condizioni di servire la Chiesa e i parrocchiani. Bergoglio è stato il decimo Papa che ha visto. Quando nacque, nel 1914, c’era Pio X: che morì spaventato dal «guerrone», che avrebbe devastato il mondo fra il 1915 e il 1918. Subito dopo venne papa Benedetto XV che, invano, provò a fermare battaglie e massacri. Quindi diventarono successori di San Pietro Pio XI e Pio XII, papa Pacelli. Era parroco a Montespertoli, nel 1938, quando il vescovo che lo aveva ordinato sacerdote, Elia Dalla Costa, chiuse le finestre della Curia al passaggio del corteo di Hitler e Mussolini in visita a Firenze.

Ha visto cambiare il mondo tante volte, monsignor Livi, fino all’ora fatidica di stamani, 28 dicembre 2014. Ma ha sempre osservato le trasformazioni con l’occhio critico e ironico di chi è nato e cresciuto in questa città. Mi spiegò: «Non sono invecchiato io, ma la città. Che ha perso il suo spirito. Vede: il film ‘Amici miei’ è arrivato cinquant’anni dopo che il prete di Santa Lucia sul Prato veniva chiamato ‘don Brioscia’ perché troppo molliccio, non risoluto. Per Carnevale mettevano una tonaca su un palo e gridavano ‘oscia, oscia, questo l’è Brioscia’. E quando dicevo che andavo a scuola all’Istituto Demidoff, miei amici cominciavano a ridere: ‘Vai a scuola da i’ Nappa’. Motivo? Il mio direttore aveva un gran naso, un peperone rosso. Però i fiorentini di una volta erano schietti, sboccati, ma le regole le conoscevano e rispettavano Firenze: che era piccina, finiva a Ricorboli e al Romito, forse polverosa ma vivibile. Eravamo più solidali? Forse sì. Nel dopoguerra, dal ’46 in poi, riuscimmo a far capire a chi veniva da lontano, soprattutto dallo sperduto Sud, che non si dovevano mettere i panni a sgocciolare fuori dalle finestre, innaffiando chi passava. E quando andavo a benedire le case spiegavo che nelle tinozze non si doveva mettere la terra per coltivare il basilico…».

Gli chiesi se il problema erano gli immigrati, magari quelli di religione musulmana. Lui scosse la testa: «Macché, conosco bene i musulmani, sono un veterano della Terra Santa. Il fatto è che tanti immigrati non si comporterebbero mai a casa loro come fanno qui. Allora vanno aiutati a capire Firenze, a integrarsi nel vero senso della parole: anche con le battute».

Don Livi poteva permettersi le battute: aveva una cultura immensa e un rigore sacro nei confronti della sua missione. Teologo e dantista citato nei saggi, non usava mezze parole quando gli chiedevano perché era voluto diventare prete. Raccontava: «Un giorno, ero ragazzo, vidi i miei amici nel giardino vicino a San Niccolò intorno a una bambina che si faceva toccare. Mi invitarono ad andare lì con loro. Pensai che non era una cosa per me. Poco tempo dopo chiesi al mio babbo di entrare in seminario. Lui non voleva. Disse che avevano respinto la mia domanda. Piansi come una vite tagliata. Allora capì, si arrese e mi accompagnò…».

Il suo ultimo cruccio? Ecco il punto: Sant’Orsola. Matteo Renzi, da sindaco, gli aveva promesso che avrebbe festeggiato il suo centesimo compleanno dentro Sant’Orsola, finalmente restaurata e restituita alla città. Il 31 marzo 2014 è passato, monsignor Livi ha tagliato il fatidico traguardo ed è stato perfino invitato a concelebrare messa con Bergoglio, il suo decimo Papa. Ma Sant’Orsola è ancora in attesa di essere trasformata secondo quei progetti renziani che monsignor Livi ha aspettato tanto e non potrà vedere mai. Almeno da vivo.


Sandro Bennucci

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